Da
Maiorca a Cuba con ironia catalana
(Carme Riera, “Verso il cielo aperto”, Fazi
editore 2002)
La scrittrice Carme Riera è stata
in Italia in questi giorni per presentare il suo nuovo romanzo Verso il cielo aperto edito da Fazi: ieri era a Milano e giovedì scorso a Roma dove, con
Francesco Ardolino (suo valente traduttore) e l’ispanista Angela Bianchini, è
stata protagonista di un interessante incontro alla Casa delle Letterature di
piazza dell’Orologio.
Docente di filologia spagnola all’Università di Barcellona, Carme Riera è
nata a Palma di Maiorca e scrive in lingua catalana.
Pur essendosi sempre dedicata alla narrativa, soltanto da pochi anni ha
affrontato la dimensione del romanzo che ritiene “un genere della maturità” e
così sono arrivati due libri per cui è oggi acclamata
come la maggiore scrittrice catalana vivente e che le sono valsi l’accostamento
a una grande autrice come Isabel Allende.
Il primo, intitolato Dove
finisce il blu, ha ottenuto in Spagna importanti riconoscimenti di pubblico
e di critica, tra cui il prestigioso Premio Nacional de Narrativa, mentre in Italia, sempre edito da Fazi, ha vinto il Premio Vittorini
e entusiasmato tanti lettori.
Il secondo, Verso il cielo
aperto, uscito da non molto, è già un caso letterario, in Spagna come
nei tanti paesi europei in cui è stato tradotto, e l’affannosa ricerca di etichettature che contraddistingue la critica ha già
imputato questo exploit al
resuscitato genere del feuilleton
d’autore.
In effetti il ritorno
ad una letteratura avventurosa e romantica, dove ci siano tutti gli ingredienti
appassionanti della saga nonché una colorita ricostruzione storica, è evidente.
Tanto che, leggendo Verso il cielo
aperto, mi tornava il ricordo dei film di Angelica, dove i bellissimi Michèle Mercier e Robert Hossein riuscivano a
incontrarsi e ad amarsi soltanto dopo mille peripezie per poi venire subito
divisi e nuovamente proiettati dai capricci della sorte in fughe, insidie,
battaglie e intrighi. In maniera altrettanto movimentata, aprendo ogni capitolo
dopo che un piccolo salto temporale è avvenuto stravolgendo ogni situazione, la
Riera racconta la storia di due famiglie imparentate che riuniscono i loro
destini attraverso un matrimonio per procura e il viaggio di due donne nel mare
sconfinato che separa Palma di Maiorca da Cuba. Le
donne sono Isabel Fortesa e
sua sorella Maria e partono dalle Canarie alla volta dei Caraibi,
poiché la prima è promessa sposa di Miguel, rampollo
insieme a Gabriel della ricca famiglia
Fortaleza di Cuba. L’idea del matrimonio è del padre dei due giovani, allo scopo di proseguire la stirpe, ma la
“condanna” è prevista soltanto per uno dei due, che deve impegnarsi altresì a
dividere con l’altro l’eredità paterna. Gabriel e Miguel
si sono giocati a carte chi dei due dovesse rimanere libero e il secondo ha
perduto. Nell’attesa del fatidico incontro, Miguel
commissiona a sua sorella Ángela la scrittura delle
lettere per la sua promessa sposa ed è la sorella di quest’ultima,
Maria, a rispondere in vece di Isabel.
Siamo soltanto all’inizio e già ogni fantasia del lettore si capovolgerà nel
suo opposto; il viaggio per mare si rivela catastrofico, Isabel
rimane uccisa da un’epidemia di peste e a giungere a Cuba sarà la sola Maria,
che viene scambiata per la sorella. Ma
i colpi di scena continuano, tenendoci avvinti al romanzo: riavutasi dalla
malattia, Maria decide di svelare ogni inganno e di chiudersi in convento.
Neppure questa esperienza durerà a lungo, la donna ne
esce per poi finire tra le braccia di José Joaquìn, il “vecchio” Fortaleza,
inimicandosi i figli Gabriel e Miguel che la
giudicheranno una spregiudicata…
Sullo sfondo, come se non bastassero le peripezie
dell’eroica Maria e tutto il carico di lotta per l’emancipazione femminile che
esse sottendono, c’è l’affresco di una Cuba di fine Ottocento, dominata dagli
spagnoli e attraversata dai sussulti indipendentisti, dalla questione degli
schiavi neri che rivendicano i loro diritti, dalla radicata corruzione della
classe politica. Non ultima, a percorrere tutto il romanzo come una riga
sottile, è la memoria della persecuzione e dei numerosi esili ordinati dalla
Spagna ipercattolica tra la fine del ’400 e la fine del ’600 ai danni degli ebrei, riverberatisi
nei secoli successivi con la vessazione dei cripto-ebrei rifugiatisi a Palma di
Maiorca (come i Fortesa), meno fortunati di quelli
emigrati a Cuba (i Fortaleza).
Nell’incontro di giovedì scorso si è parlato molto dell’ironia con cui la
scrittrice maiorchina affronta questa macchia
indelebile sulla coscienza iberica. E anche di come in Spagna la sua vena
ironica non venga quasi colta. Allora mi sono permesso
di osservare che è difficile individuarla per coloro ai quali brutti ricordi vengono rievocati o dolorose ferite riaperte. Pensavo a Ennio Flaiano, ironico per
eccellenza, e a quando pubblicò Tempo
di uccidere. In occasione di quel romanzo ambientato negli anni
dell’invasione dell’Abissinia, nessuno avrebbe parlato dell’ironia di Flaiano poiché, accanto a fatti banali e ridicoli che
avvenivano nella storia e attraverso la fatuità dei gesti del protagonista, lo
scrittore denunciava quell’atto gratuito e inutile
che la campagna italiana in Africa era stata!
Ho chiesto direttamente a Carme Riera se fosse
d’accordo con un’ipotesi del genere e lei ha risposto: “Totalmente sì!”. Nel
lampo dei suoi occhi ho ritrovato il forte temperamento di Maria, che dalla sua
autrice deve averlo ereditato…
(04/2/03)©
Paolo Izzo
Torna a Recensioni