La quieta tempesta

(da Quaderni Radicali n. 61/63 – gennaio 1999)

 

Allora, ci sono venuti a prendere. Per portarci qui, in un porto sepolto, a curare il nostro io affranto, vessato, ferito. Ci sentiamo già meglio, con questo vuoto nello stomaco, con questo pastoso fluire di pensieri, con questa pesantezza delle palpebre come dopo una notte insonne... La nostra cittadinanza è lontana, intuita attraverso un cannocchiale rovesciato: soltanto una lingua, ancora bellissima, insostituibile, ci ricorda chi siamo. Ma sono parole; tempo e spazio si dilatano morbidamente per diventare un solo momento e nessun posto. Come se facessimo un mestiere il cui unico punto fermo sia un mezzo in movimento: l’assistente di volo, il capotreno, il rappresentante di penne a forma di pesciolino.

Facciamo la parte dei bambini, nella quieta tempesta, nel dormiveglia ovattato e attento: pensierosi, ma ancora scomposti nelle nostre pulsioni, ci sentiamo bene e non capiamo perché.

 

«Ritto davanti all’acquaio in cucina e con gli occhi fissi sui lucenti rubinetti d’ottone che brillavano tanto lontani, ognuno con la sua goccia d’acqua al naso che lentamente si gonfiava, e cadeva, David ancora una volta si rese conto che questo mondo era stato creato senza che ci si preoccupasse di lui. Aveva sete, ma l’anca di ferro dell’acquaio si appoggiava a delle gambe alte quasi quanto era alto lui. E pur allungando il braccio, pur saltando, non riusciva a raggiungere la distante cannella. Da dove veniva l’acqua che si celava tanto segretamente nella curva dell’ottone? Dove andava, gorgogliando nello scarico? Che strano modo doveva nascondersi dietro i muri di una casa! Ma aveva sete.

“Mamma!”, chiamò, e la sua voce si levò sul fruscio della scopa in salotto. “Mamma, voglio da bere”.

La scopa invisibile si fermò ad ascoltare. “Sono costì fra un momento”, rispose sua madre. Una sedia strillò sulle sue rotelle; una finestra si abbassò ridacchiando; il passo di sua madre che si avvicinava».

 

Comincia così, dopo un prologo, Chiamalo sonno di Henry Roth (Garzanti). A parte un’opera-fiume il cui dattiloscritto contava migliaia di pagine (pubblicato in due parti, di cui una postuma), è l’unico romanzo che ci rimane dello scrittore scomparso quattro anni fa.

Una famiglia polacca arriva a New York all’inizio del secolo: è una coppia di emigranti ebrei con un figlioletto di nome David che approda ad una nuova vita o, meglio, alla stessa vita di sempre, riadattata per un continente nuovo. E lì David comincerà a conoscere un po’ di mondo, con la calma curiosità dei bambini, in mezzo ai “Va’ giù a giocare” o “Sali in camera tua” imposti con ferma dolcezza dagli adulti, in mezzo a problemi di cui non si rende ancora conto, in mezzo a parole sconosciute ed al senso che lui dà loro di volta in volta. Conoscerà giochi, zie isteriche, mamma e papà che litigano, i rabbini, gli amici, le prime malizie... Vivrà avventure e disavventure, sempre con gli occhi attenti e incantati sulle cose nuove e con il sottile desiderio, qualche volta, di chiuderli per dormire e per sognare.

È impossibile non farsi trascinare nella quantità di immagini, nella quiete intelligente di questo romanzo giustamente considerato un capolavoro. Attraverso lo sguardo di David possiamo scegliere di seguire mille rivoli, dalla realtà sociale di inizio secolo al sentire ebraico, dai rapporti umani alle pulsioni infantili, dalla durezza del reale al rifugio del sogno...

 

E sui sogni ci sarebbe da riprendere in mano un piccolo libro di Antonio Tabucchi, pubblicato da Sellerio nel 1992 e intitolato Sogni di sogni. È una piccola raccolta di brevi racconti, in ciascuno dei quali un personaggio famoso fa un sogno. In uno il Caravaggio sogna che Dio gli commissiona un dipinto, in un altro Garcia Lorca sogna di essere giustiziato da soldati ubriachi capeggiati da un nano mostruoso, in un altro ancora Debussy si sogna su di una spiaggia, di pomeriggio, mentre fa l’amore con una ninfa, al suono incantevole dello zufolo di un fauno.

Tabucchi, in una nota, afferma che si tratta di “narrazioni vicarie, che un nostalgico di sogni ignoti ha tentato di immaginare”. Con un gioco di parole possiamo aggiungere di aver letto delle immagini di sognatori che un narratore della realtà ha contribuito ad immortalare.

Un’ultima chicca prima del sogno: lo scrittore ha dedicato il libro alla figlia Teresa, che gli regalò il quaderno su cui egli lo scrisse (è un particolare che mi pare carino e soprattutto adatto alla piega zuccherina che sta prendendo questa puntata della rubrica!).

 

«Anton Cechov sognò che stava in una corsia d’ospedale e che gli avevano messo una camicia di forza. [...] Arrivò un dottore vestito di bianco e Anton Cechov gli chiese carta e penna. Lei non può scrivere perché ha troppa teoretica, disse il dottore, lei è solo un povero moralista, e i pazzi non possono permetterselo. Come si chiama lei?, gli chiese Anton Cechov. Non posso dirle il mio nome, rispose il dottore, ma sappia che io odio quelli che scrivono, specie se hanno troppa teoretica. La teoretica rovina il mondo. Anton Cechov provò il desiderio di schiaffeggiarlo, ma intanto il dottore aveva tirato fuori il rossetto e si stava rifacendo il trucco delle labbra. Poi si mise una parrucca e disse: sono la sua infermiera, ma lei non può scrivere, perché ha troppa teoretica, lei è solo un moralista e a Sachalin c’è andato in vestaglia. E così dicendo gli liberò le braccia. Lei è un povero diavolo, disse Anton Cechov, ma non sa neppure cosa sono i cavalli. Perché dovrei conoscere i cavalli?, chiese il dottore, io conosco solo il direttore del mio ospedale. Il suo direttore è un asino, disse Anton Cechov, è una bestia da soma, ne ha sopportate tante nella sua vita. E poi aggiunse: mi faccia scrivere. Lei non può scrivere, disse il dottore, perché lei è pazzo».

 

 

Sogni e pazzia. E scrittura. Ci siamo tornati; qualcuno si ricorda che invocavamo un’ambulanza che ci portasse “via dalla pazza folla”? Ebbene, ci ha portato in questo porto sepolto, in questa quieta tempesta. Da qualche parte c’è sicuramente il mare, intorno  a noi un ostinato deserto.

Ce ne parla anche Maurizio Maggiani ne Il coraggio del pettirosso (Feltrinelli)...

Il giovane Saverio è ricoverato in un ospedale di Alessandria d’Egitto. Lo hanno portato qui in stato di incoscienza a seguito di un’embolia: nel quartiere di Ras el Tin si era messo in testa di esplorare i fondali della vecchia diga in cerca del porto sepolto (!). Lo hanno portato qui e lo hanno affidato alle cure del dottor Modrian che da mesi, ogni mattina, per una mezz’ora gli fa visita e ascolta il suo sogno a puntate. E così viene fuori una serie di storie: c’è il padre fornaio di Saverio, c’è ovviamente Giuseppe Ungaretti, c’è lo sfortunato e fantastico paese cinquecentesco di Carlomagno, c’è Pascal, un progenitore di Saverio, che si innamora di Sua e c’è Saverio che s’innamora della bella e inquietante Fatiha, una combattente palestinese. Tutte queste storie che s’incontrano, che s’intrecciano, che fanno romanzo nel romanzo, che vengono scritte in ospedale o che vengono raccontate da Saverio agli amici Amos e Ruben ed a tanti altri (viene in mente la famiglia Malaussène di Pennac!); quasi tutte queste storie ci danno bellezza e calma, poesia e sogno.

C’ha vinto un premio Maggiani, mica no!

 

«Nel deserto ci sono molte cose da vedere e sentire e odorare. E ognuna ha un grande spazio attorno a sé. Un cespuglio striminzito di mirto manda un profumo molto intenso, ma è il solo cespuglio nel raggio di molti chilometri, ed è l’unico odore che si può percepire in quel momento. Con lo sguardo puoi abbracciare diverse ore di cammino e molte montagne e depressioni e piste che si perdono oltre l’orizzonte, ma niente è ammonticchiato alla rinfusa, niente si sovrappone e confligge come capita in una città. Così ogni rumore è ben distinto e libero di muoversi all’infinito. Tutto questo è molto riposante, tutto questo dà un senso di grande ordine e pulizia che rende agevole il cammino e lascia liberi di pensare in tranquillità. Così il tempo è una cosa molto opinabile e una marcia di dieci giorni può sembrare una breve e piacevole passeggiata».

 

 

Ecco cosa volevamo sentire: “Tutto questo è molto riposante...”, etc. etc.. Vale per tutti e tre i libri scelti: cosa c’è di meno chiassoso dei pensieri di un bambino, dei sogni notturni e delle passeggiate nel deserto?

Di questo avevamo bisogno per lenire un poco la nostra misantropia e tornare ad essere in grado di sopportare le parole inutili che sentiamo in giro, le persone inutili che vediamo in giro.

Allora, ce ne stiamo da queste parti, in questa pace, ancora per un mesetto e poi con un “fioretto” torniamo in mezzo agli altri? Facciamo, magari, due mesetti?

 

 

© Paolo Izzo

 

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