Pazzia e altre vendette

(da Quaderni Radicali n. 56/57 – novembre 1997)

 

Stavolta l’idea principale è che finiremo per trovarci meglio con i pazzi, con gli indifferenti, con gli egoisti. Fino a qualche tempo fa, ci saremmo avventati su di un amico che dimostrasse una tendenza al qualunquismo; avremmo provato a convincerlo che la lotta, l’impegno individuale, il lavoro instancabile per la costruzione di una società più giusta, più democratica, più civile sono doveri prima ancora che diritti. Avremmo infarcito i nostri discorsi con le belle parole dell’idealismo, tentando quanto meno di impedire che quel nostro amico se ne andasse all’estero per sempre, fuggendo da una realtà guasta ed irreparabile.

Oggi, al diavolo la coerenza, non ci riusciamo più.

Tendiamo, piuttosto, a rimanere affascinati dall’incontro con un folle, con chi asseconda le stranezze di un Paese bizzarro, facendo buon viso a cattivo gioco, e nel frattempo coltiva un’insania liberatoria che presto o tardi lo porterà ad una vera e propria dissociazione dal mondo esterno per rimanere saldamente arroccato nella propria interiorità. Anche a costo di essere considerato, appunto, un folle.

Tendiamo ad impazzire noi stessi, a rimanere indifferenti, a provare un sadico egoistico innaturale piacere nel vedere le situazioni peggiorare, andare a fondo, precipitare ancora più in basso di quanto non siano già.

Forse è la nostra antica speranza di poter vedere, almeno una volta nella nostra vita, una fenice che risorge dalle proprie ceneri e che spicca un volo altissimo. O forse ci stiamo soltanto arrendendo.

 

E così magari avremo in sorte di finire come il dottor Andrej Efimyc Ragin di Reparto n. 6 (Einaudi). In un crescendo di claustrofobia e manie di persecuzione, il racconto di Anton Cechov narra le vicende di un trentatreenne assai intelligente, Ivan Dmitric Gromov, che viene rinchiuso in un ospedale e lì è costretto a vivere “allungato sul letto, acciambellato su se stesso, o cammina su e giù, come per fare del moto... sempre allarmato, agitato e in balìa di non so che confusa, indefinibile attesa”. Nel suo “discorrere disordinato”, delirante, egli parla di tutto: “della bassezza umana, della violenza che calpesta la giustizia, della mirabile vita che, col passare del tempo, s’instaurerà sulla terra, di queste finestre inferriate che gli vengono prospettando, istante per istante, l’ottusità e la ferocia dei prepotenti”.

Un dottore, Andrej Efimyc, si accorge di questo giovane tormentato ed è l’unico a riconoscere in lui “un pazzo e insieme un uomo”. Inizia a frequentarlo, ad andarlo a trovare. Ne rimane conquistato, diventa suo amico. Parlano, i due, di ogni cosa. Si lamentano della stupidità umana...

La stupidità umana, il mondo esterno, gli altri non possono capacitarsi dell’amicizia tra Ivan Dmitric e il dottor Andrej Efimyc e bollano quest’ultimo come pazzo a sua volta; a onor del vero, qualcuno fa pure dei tentativi per distrarre il medico, ma poi, giudicatolo irrecuperabile, lo condanna e lo isola. A chi cerca invano di capire, Andrej Efimyc risponderà così:

 

«La mia malattia sta tutta nel fatto che nel corso di vent’anni ho trovato, in tutta la città, un solo uomo intelligente, e questo era un pazzo. Malato, io, non sono minimamente: il fatto è che sono incappato in un cerchio magico, dal quale non c’è via d’uscita. Di nulla m’importa più, son pronto a ogni cosa. [...] Ormai tutto, perfino il sincero interessamento dei miei amici, cospira a un sol fine: alla mia rovina. Io sto precipitando nell’abisso, e ho la virilità di rendermene conto. [...] Pochi son quelli che, sul finire della vita, non hanno a provare quel che appunto provo ora io. Quando vi si dirà che avete qualcosa sul genere d’un rene malato, o d’un ingrossamento al cuore, e voi comincerete a farvi curare; o quando vi si dirà che siete un pazzo, o un criminale, e insomma tutto d’un tratto la gente rivolgerà su voi la sua attenzione: ebbene, sappiate che allora voi siete incappato in un cerchio magico, dal quale non avrete più modo di uscire. Farete dei tentativi per uscirne, e non otterrete che di perdervi peggio. Cessate ogni resistenza, giacché non c’è sforzo umanamente possibile che riuscirà a salvarvi. Così credo io».

 

 

Ma, l’abbiamo detto, ci sono anche altri modi per estraniarsi dalla spazzatura che ci circonda. Per esempio comportarsi come se si prestasse perennemente il servizio di leva. Chi si è giocato un anno di vita a causa della “naja” (tra poco anche le donne avranno qualcosa da raccontare in merito!), ricorderà l’ottusità, la noia, l’inutilità di certe giornate e di certe persone. Ma ricorderà pure che talvolta bastava... fare finta. Fare finta di non pensare, di essere d’accordo, di marciare con convinzione. Annullarsi esteriormente per pensare di nascosto.

Un po’ come accade in alcuni collegi. Un po’ come accade in due bellissimi romanzi: Jakob von Gunten di Robert Walser (Bompiani) e I beati anni del castigo di Fleur Jaeggy (Adelphi). In entrambi c’entra pure la follia, poiché, per quanto riguarda Walser, l’autore svizzero visse gli ultimi ventisette anni della sua esistenza in vari istituti psichiatrici; mentre nel romanzo della Jaeggy - che scrive in italiano - gli elementi finora descritti ci sono tutti, ben mascherati da quella sorta di dolcezza e di quiete in cui veniamo calati leggendo le pagine del libro.

 

Jakob von Gunten è un ragazzo di età imprecisata, che vive in un tempo indefinito, mai scandito dal succedersi dei giorni o delle stagioni, e che di sua spontanea volontà si reca all’Istituto Benjamenta, un collegio laddove il tempo - appunto - ha un ritmo diverso, è un non-tempo. “Qui s’impara ben poco, c’è mancanza di insegnanti, e noi ragazzi dell’Istituto Benjamenta non riusciremo a nulla, in altre parole, nella nostra vita futura saremo tutti qualcosa di molto piccolo e subordinato”; così esordisce Jakob nel suo diario. Imparano a servire, i giovani allievi dell’Istituto. A tacere, ad avere un impeccabile contegno, a soffocare gli istinti di libertà. Ecco come ci si prepara alla vita.

L’ironia di Walser ci porta su un ambiguo sentiero in cui costantemente la stessa cosa e il suo contrario vengono affermate e subito negate. Le pagine sono costellate di “In realtà no; eppure sì”. Qualunque moto di ribellione fa giusto a tempo ad essere intuito dal lettore, che subito scompare. Jakob, forse l’unico tra i discepoli ad avere in principio subodorato la fregatura di quell’Istituto, è colui che maggiormente sarà fedele al direttore ed a sua sorella, unici precettori del collegio, sino alla fine. Tale è il suo annullarsi, il suo piegarsi ad un’obbedienza cieca ed estatica, la sua opera di scientifica rimozione di qualunque traccia di personalità.

 

«Dietro la casa si stende un vecchio giardino abbandonato. Quando la mattina guardo giù dalla finestra dell’ufficio, mi rattristo al vederlo così negletto, e ogni volta mi verrebbe voglia di scendere a riordinarlo. Sentimentalismi, si sa. Al diavolo queste smancerie buone solo a disorientare. Nel nostro Istituto Benjamenta vi sono ben altri giardini. Andare nel giardino vero ci è proibito. Nessun alunno può entrarvi: perché poi di preciso, non so. Ma, come dicevo, abbiamo un altro giardino, che forse è più bello di quello reale. Nel nostro libro di testo. Quale meta si propone la scuola di ragazzi? è scritto a pagina otto: “La buona condotta è un giardino in fiore”. E in questo giardino, il giardino dello spirito e dei sentimenti, noi allievi possiamo scorazzare a volontà. Niente male. Se uno di noi si conduce in malo modo, è come se camminasse da sé in un brutto inferno buio. Se invece si comporta bene, per compenso passeggia automaticamente tra una verzura ombrosa dove sfavilla il sole. Com’è seducente!».

 

 

I beati anni del castigo di Fleur Jaeggy inizia così: “A quattordici anni ero educanda in un collegio dell’Appenzell. Luoghi dove Robert Walser aveva fatto molte passeggiate quando stava in manicomio, a Herisau, non lontano dal nostro istituto”. Tanto per dire!

Nel collegio e nella vita della protagonista, fa il suo ingresso Frédérique, “una nuova”, quindici anni, “una bella fronte alta, dove i pensieri si potevano toccare, dove generazioni passate le avevano tramandato talento, intelligenza, fascino. Non parlava con nessuno. Le sembianze erano di un idolo, sprezzante. Forse per questo desiderai conquistarla. Non aveva umanità. Sembrava anche disgustata. La prima cosa che pensai: era andata più in là di me”.

Frédérique (dal punto di vista di questa rubrica, s’intende) è un’eroina; perché va molto più in là di ognuno. Fin troppo, può darsi. E tutto senza emozione apparente, con una “malafelicità” che la sua ammiratrice-narrante riesce a provare soltanto una volta e che esige solitudine, “uno stato di ebbro e tranquillo egoismo, una vendetta felice”.

 

«Obbedienza e disciplina scandivano l’ordine, al Bausler Institut. Frédérique, giorno dopo giorno, ne dava il buon esempio. Per distrazione si può dimenticare di salutare la direttrice, incontrandola in un corridoio. È permesso, forse anche in un regime autoritario, essere assorti. Frédérique, che sembrava perennemente assorta, non dimenticava mai di salutare, di chinare il capo davanti alla direzione. [...] Aveva una doppia vita, Frédérique? Le sue conversazioni con me non solo erano profonde, e qui accennerei che talvolta mi debilitavano, ma certe sue idee, forse per l’estrema libertà con cui ne parlava, non erano di stretta e pacata ortodossia. Ero ignorante, come ho già detto. Frédérique mi dava l’impressione, e so che questa parola fa sorridere, di una nichilista. Questo me la rendeva ancora più affascinante. Una nichilista senza passione, con la sua risata gratuita, quella della forca. [...] Era eloquente. Non parlava di giustizia. Né del bene e del male, argomenti che avevo sentito dalle insegnanti e dalle mie compagne da quando avevo messo piede nel primo collegio a otto anni. Sembrava che parlasse di niente. Le sue parole volavano. Non aveva ali ciò che rimaneva dopo le sue parole. Non pronunciò mai la parola Dio, e quasi non riesco a scriverla, per il silenzio con cui lei la circondava».

 

 

Insomma, ormai appare chiaro: abbiamo scelto questa sana pazzia per rispondere al “falò delle vanità” che ci accerchia. Ci travestiremo da qualunquisti, ci camufferemo con gli stracci dei rejetti, sfigureremo i nostri lineamenti, le grafie, i pensieri. E troveremo pace in un ebete egoismo.

Il cammino compiuto di notte, la sosta, oziosa e indifferente, vissuta in pieno giorno. Il vostro falso trambusto non ci interessa più: l’agonia della vostra politica, i rantoli di lettere stanche, i fatui fuochi d’artificio del vostro cinema non ci ingannano. Non ce ne faremo carico: non vi tedieremo più con il nostro zelo da infermieri, con le indicazioni che non seguirete, con le piccole verità che vi ostinate a mentire.

Adesso chiamiamo un’ambulanza tutta per noi; che ci prenda o che ci lasci qui. Non fa differenza. L’importante è che sia chiaro, certificato, burocraticamente vidimato che la nostra salute mentale vacilla, anzi è passata. La malattia è incurabile, ma liberatoria come una vendetta.

 

 

© Paolo Izzo

 

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