Uomini con qualità

(da Quaderni Radicali n. 54/55 – giugno 1997)

 

La lettura de L’uomo senza qualità di Robert Musil (Einaudi), devo ammetterlo, è stata rivelatoria. Non ero ancora riuscito a capacitarmi di cosa mancasse all’Italia, in questo frangente di vita culturale, politica e sociale, quando all’improvviso un librone ha illuminato il buio cunicolo in cui mi stavo “infognando”.

Siamo nella totale assenza di uomini senza qualità; di esseri umani veramente pensanti che non si entusiasmino troppo facilmente e che al contempo non inoculino nelle persone falsi entusiasmi e assurde verità; di leader, in una parola, che siano in grado di cogitare pazientemente delle soluzioni e di applicarle o di farle applicare. Non dico qualcuno da seguire come un vate, ma semplicemente (!) qualcuno che sappia almeno seguire se stesso, le proprie idee, lontano dai rumori esterni, non comprabile, non schierabile, non demolibile (oddio! Detta così pare che si vada cercando un Terminator, ma vi prego di leggere tra le righe...).

 

Prendo spunto da un frammento del monumentale Musil. Nelle storie che si intrecciano ne L’uomo senza qualità, ce n’è una particolarmente romantica: Ulrich è amico di una coppia, Clarisse e Walter. Quest’ultimo ne è geloso ed affascinato ad un tempo; e teme che la sua consorte possa cadere vittima del carisma del suo antagonista. In una delle numerose scenate fatte per smontare la suggestione di Clarisse, ecco che proprio Walter ci descrive Ulrich, l’uomo senza qualità, appunto: 

 

«Dall’aspetto non puoi indovinare la sua professione, eppure non ha l’aria di un uomo senza professione. E adesso rifletti com’è: sa sempre ciò che deve fare; sa guardare una donna negli occhi; è capace di meditare su qualunque argomento in qualunque momento; è un buon pugilatore. Ha ingegno, volontà, spregiudicatezza, coraggio, perseveranza, slancio e prudenza... non voglio addentrarmi in un’analisi, diciamo che possiede tutte queste qualità. Eppure non le possiede! Esse hanno fatto di lui quello che è, e hanno segnato il suo cammino, ma non gli appartengono. Quando egli è in collera, c’è in lui qualcosa che ride. Quando è triste, si prepara a far qualcosa. Quando qualcosa lo commuove, egli lo respinge da sé. Ogni cattiva azione sotto qualche aspetto gli apparirà buona. Solo una possibile correlazione determinerà il suo giudizio su un fatto. Per lui nulla è saldo, tutto è trasformabile, parte di un intero, di innumerevoli interi che presumibilmente appartengono a un superintero, il quale però gli è del tutto ignoto. Così ogni sua risposta è una risposta parziale, ognuno dei suoi sentimenti è soltanto un punto di vista, di ogni cosa non gli preme di sapere che cos’è, ma solo di scoprire un secondario “com’è”, un accessorio qualunque. Non so se riesco a farmi capire».

 

 

Non so se riesco a farmi capire. Ma mi pare che noi, al  contrario, siamo pieni di uomini che dimostrano altre qualità: esperti di ogni genere, presidenti di illustri associazioni, professori, luminari dell’economia, politologi. Gente zeppa di esperienza si agita nell’intento di guidarci nel “decennio italiano” che va estinguendosi, perché finalmente possiamo esplodere in tutta la vivacità intellettuale che da sempre ci caratterizza, nell’anno del Giubileo. O, meglio ancora, nel 2004, in occasione dell’olimpica manifestazione europea e mondiale, l’unica - forse - in cui riusciremo a conquistare primati e medaglie. Non è ancora detto che le olimpiadi si tengano a Roma, ma sportivi e tifoserie scaldano i muscoli e guai ai nostri campioni se falliranno: tutte le italiche frustrazioni verranno inevitabilmente scaricate sui loro insuccessi.

Niente più politica, comunque; niente più letteratura, niente più informazione: al più la massa viene invitata nei musei, le si regalano gadget portafortuna, le si promettono fantastici viaggi per esortarla all’emigrazione definitiva, o la si spedisce sulla riva del Tevere, per sudare le tossine degli svariati rincari fiscali, o al Foro italico, per impegnarla in feroci attività sportive con cui potrà dimenticare le supertasse pagate per entrare - forse - nell’Euro.

Qualcuno, intanto, ricorda cosa sia o cosa contenga un programma elettorale o di governo? O le relazioni della Bicamerale? Pagine Inutili, poiché rimanderanno le decisioni a tempi in cui lo stesso presidente di sempre, rieletto chissà come dal popolo, verrà mostrato con un ologramma vivo e vegeto al discorso di fine anno 2050.

La politica non piace? Candidiamo allora un industriale, un tecnico, una casalinga, una soubrette alla guida - per esempio - della Capitale, ma stemperiamolo con qualcuno cui sia vietato l’ingresso nei fondamentali salotti di “incartapecorite” signore.

Se poi nemmeno la corsa al potere ci diverte più, ci rimane la Giustizia, che come ogni anno vivacizza l’estate italiana: un tempo era il “merolone”, oggi sulle spiagge mucillaginose del Belpaese, possiamo discutere sulle froge aspiratutto di una ex pm o sulle pelliccette sintetiche applicate a sgargianti tailleurs di un’altra giudice. Uno scontro culturale, prima ancora che politico, su cui stranamente non si è ancora espressa l’Alba nazionale.

Il 2004, si diceva; purtroppo non ci saremo più nel 2100, quando si potrà “espianetare” su Marte (ancora e sempre mondi rossi!), ma già per le olimpiadi dovrebbe essere pronto un piano di evacuazione delle metropoli italiane, trasformate in città-museo con divieto di calpestare il terreno (vedi Napoli, ma con un buon cannocchiale).

I mass-media ci informano di ogni centimetro che viene percorso dal robottino virtuale sui lidi marziani, ma anche di tette che esplodono e di vicissitudini tra top-model, o peggio ancora dei libri che queste fanciulle scrivono e pubblicano.

Tutto questo delirio per tornare ai libri? Ebbene sì.

Con i capelli dritti e la pelle d’oca, vediamo cosa prediceva la Zingara letteraria solo qualche decennio fa.

 

Noi scritto da Evgenij Zamjàtin (Feltrinelli) nel 1922, ci racconta della fine dell’individualismo e della libertà, attraverso il fallimento del protagonista, il numero D-503: questi è alle prese con una crisi che lo fa momentaneamente risvegliare dal torpore in cui lo Stato Unico, una organizzazione sociale scientificamente perfetta, ha calato tutti gli uomini. Tenterà di capire in quanti la pensano come lui e scoprirà un mondo sotterraneo incline alla fantasia, retaggio ormai di antiche speranze; proverà un sentimento ormai ammuffito come l’amore; ma capitolerà sotto il peso di una visione comune ormai radicata, di un ottuso silenzio impossibile a rompersi, di una scienza esatta il cui unico vero progresso è l’invenzione di nuovi recinti e di nuove barriere. La prima pagina del Giornale Statale che D-503 è costretto a leggere, ci può dare un’idea:

 

«...arrossite! - I Guardiani sempre più spesso vedono in voi questi sorrisi e odono questi sospiri. E - nascondete gli occhi - gli storici dello Stato Unico, chiedono di andare a riposo per non registrare avvenimenti vergognosi. Ma questa non è colpa vostra - voi siete malati. Il nome di questa malattia è: Fantasia. È questa un verme che scava sulla fronte le nere rughe. È questa una febbre che vi spinge a correre sempre più lontano - nonostante che questo ‘più lontano’ cominci là dove finisce la felicità. Questa è l’ultima barricata sulla via della felicità. Rallegratevi: essa è stata già fatta saltare in aria. La via è libera. L’ultima scoperta della Scienza Statale è che il centro della fantasia è un misero nodo cerebrale nel campo del ponte di Valoriev. Una triplice applicazione di raggi X a questo nodo e voi siete liberati dalla fantasia. Per sempre. Voi siete perfetti, siete uguali alle macchine, la via della felicità al cento per cento è libera. Affrettatevi tutti - vecchi e giovani - affrettatevi a sottoporvi alla Grande Operazione».

 

 

Un altro ribelle si chiama Winston, ed è il protagonista, insieme a Julia, di 1984 di George Orwell (Mondadori). Nel romanzo, del 1948, sono di nuovo organizzazioni totalitarie a farla da padrone ed il pianeta è diviso in tre grandi superstati perennemente in guerra tra loro, anche se - secondo i princìpi del bispensiero che afferma e nega tutto e il contrario di tutto, simultaneamente - il vero scopo di questi scontri è quello di “consumare i prodotti della macchina senza migliorare il generale livello di vita”. Un’entità infallibile, onnipotente e invisibile, il Gran Fratello, è il regista e capo indiscusso di ogni azione svolta dai membri del Partito Interno... Un controllo esasperante vige su tutti i membri di questo partito, le loro emozioni essendo osservate, archiviate, punite quando necessario con la vaporizzazione del reo. Spettrali “teleschermi” installati in tutte le abitazioni sono il mezzo per questa coercizione, ma da essi arrivano pure incessantemente notizie, propaganda;  un vero e proprio lavaggio del cervello. La Psicopolizia, i Due Minuti d’Odio, il Ministero dell’Amore, i bambini Spie e la Lega Giovanile Anti-Sesso, sono soltanto alcune delle creature terrorizzanti inventate da Orwell per rendere veramente oscuro ed angosciante lo scenario in cui si svolge l’impotente azione di chi vorrebbe reagire a quello stato di cose (suvvia, il romanzo l’avrete letto tutti, no?)

 

«Non appena tutte le correzioni che si rendevano necessarie a ogni numero del Times erano state messe insieme e verificate, quel numero veniva ristampato di nuovo, la copia originale distrutta, e la copia corretta veniva collocata nelle collezioni al suo luogo. Tale processo di continua trasformazione era applicato non soltanto ai giornali, ma ai libri, ai periodici, agli opuscoli, ai manifesti, alle circolari, ai films, alle colonne sonore, alle illustrazioni, alle vignette umoristiche, alle fotografie... a qualsiasi genere di roba stampata e comunque documentata che potesse avere un significato politico o ideologico. Giorno per giorno, minuto per minuto, si può dire, il passato veniva messo al corrente. In questo modo qualunque previsione fatta dal Partito si sarebbe potuta dimostrare, con prove schiaccianti, perfettamente corretta; né alcuna notizia, ovvero alcuna opinione che fosse in contrasto con le esigenze del momento, era concepibile che venisse affidata a un documento».

 

 

E ancora ancora in 1984 si può leggere qualcosa!? Ma che dire di una legge che vieti la lettura in quanto tale? È quanto accade in Fahrenheit 451 di Ray Bradbury (Mondadori), del 1951. Tutta la carta stampata deve essere data alle fiamme. Un corpo di vigili del fuoco “all’incontrario” è istituito per bruciare ogni pagina rinvenuta nelle case degli uomini. Uno stato mentale da incubo riempie la storia di Bradbury, in cui il pompiere Montag, altro rivoluzionario ormai in ritardo, si desta quando comprende l’assurdità del proprio lavoro. Egli dovrà fuggire perché macchiatosi dello stesso reato in cui già tanti sono caduti: leggere libri, conservarli, farne tesoro. L’unica soluzione per chi come lui non vuole abbandonare la fantasia è l’utilizzo della memoria, così da poter tramandare a voce i libri imparati e lasciar sopravvivere l’ultimo residuo di un passato dimenticato in cui la parola libertà faceva ancora parte almeno dei dizionari.

 

«A misura che le scuole mettevano in circolazione un numero crescente di corridori, saltatori, calderai, malversatori, truffatori, aviatori e nuotatori, invece di professori, critici, dotti e artisti, naturalmente il termine ‘intellettuale’ divenne la parolaccia che meritava di diventare. Si teme sempre ciò che non ci è familiare. Chi di noi non ha avuto in classe, da ragazzini, il solito primo della classe, il ragazzo dalla intelligenza superiore, che sapeva sempre rispondere alle domande più astruse mentre gli altri restavano seduti come tanti idoli di legno, odiandolo con tutta l’anima? Non era sempre questo ragazzino superiore che sceglievi per le scazzottature e i tormenti del doposcuola? Per forza! Noi dobbiamo essere tutti uguali. Non è che ognuno nasca libero e uguale, come dice la Costituzione, ma ognuno vien fatto uguale. Ogni essere umano a immagine e somiglianza di ogni altro; dopo di che tutti sono felici, perché non ci sono montagne che ci scoraggino per la loro altezza da superare, non montagne sullo sfondo delle quali si debba misurare la nostra statura! Ecco perché un libro è un fucile carico, nella casa del tuo vicino. Diamolo alle fiamme! Rendiamo inutile l’arma. Castriamo la mente dell’uomo».

 

 

L’assenza di leader magari non porterà a tutto questo, ma certamente giustificherà in misura sempre maggiore l’avvento della stupidità, l’abbrutimento dell’intelligenza, la morte del pensiero. Chi non vuole che ciò accada, è sempre più amareggiato di fronte all’inevitabilità di tale processo. Chi spinge perché non si abbia più una scelta, è sulla buona strada.

Tanto per tirare su il morale, rileggiamo un breve passo tratto da La Nausea di Jean-Paul Sartre (Mondadori) che ben rappresenta la sensazione di fastidio fisico che proviamo:

 

«Tutta la mia vita è dietro di me. La vedo tutt’intera, vedo la sua forma e i suoi lenti movimenti che m’hanno condotto fin qui. C’è poco da dirne: è una partita perduta, ecco tutto [...] Avevo perduto la prima mano. Ho voluto giuocare la seconda ed ho perduto anche questa: ho perduto la partita. E nel tempo stesso ho appreso che si perde sempre. Ci son solo i porcaccioni che credono di vincere. Adesso farò come Anny, mi sopravviverò. Mangiare, dormire. Dormire, mangiare. Esistere, lentamente, dolcemente, come questi alberi, come una pozza d’acqua, come il sedile rosso del tram.

La Nausea mi lascia un breve respiro. Ma so che ritornerà: è il mio stato normale».

 

 

© Paolo Izzo

 

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