Anima immonda
(da Quaderni Radicali n. 52/53 – gennaio 1997)
Anche questa volta
ricorriamo ad un altro dei nostri ragionamenti irrazionali, disegniamo un’altra
delirante realtà.
Parleremo del 2000, quindi se può servire, ci si concentri
su film come Strange days o Nirvana, ma non su quella serie
televisiva che si chiamava Spazio 1999.
Lì, infatti, in mezzo ad astronavi, teletrasporti,
trasmutazioni genetiche, per la fine del millennio si presagivano pettinature
anni sessanta, tute spaziali antidiluviane: niente di tutto questo!
Come ebbe a dire Malraux (davvero è stato soltanto lui?), il XXI secolo sarà
spirituale. Questa ipotesi è confermata da Sanremo, per esempio: nella breve
porzione del festival che sono riuscito a sopportare quest’anno - circa un’ora della prima serata - si sono
avvicendate molte canzonette-fotocopia, molti suoni-già-sentiti,
ma soprattutto un paio di testi invocanti un Signore più o meno simile a quello
conosciuto attraverso la religione cattolica.
Un piccola forzatura? Va bene. E allora, in aggiunta, corre l’obbligo di segnalare che, se durante
la notte vanno sempre più affievolendosi i porno-messaggi
di porno-telefoni, per legge o per noia consolidata,
non demordono invece quelle tv private che trasmettono predicatori anglofoni di tutti i generi, ma con un unico obiettivo
(anche la Rai, più nazional-popolarmente,
ha scoperto annunciatrici spiritual-country
e preticelli con lo slang giovanile per il medesimo scopo): il messaggio ossessivo è
“pentimento”. Energumeni in tuta ginnica, azzimati signori di
dubbia origine etnica (marziani infiltrati sulla Terra?), coppie di sposi
apparentemente innocue e pacifiche, testimoni lacrimanti e famiglie
serene, folle oceaniche. Questi nuovi popolatori dell’etere, si pensa,
venderanno qualcosa: nemmeno per idea!
Ecco quanto risuona
ossessivamente nelle loro parole: “Dio e Pentimento, Pentimento e Dio”. La
nostra anima è immonda (ci perdoni la Tamaro per la
parodia della sua parodia, che noi la perdoniamo per i suoi libri), il peccato
si è insediato stabilmente nella nostra vita e questa è divenuta un tutt’uno di “sangue e merda”
(citazione da Thomas Prostata, Mai dire Gol, il migliore scrittore “pulp” in circolazione, poiché
non scrive... almeno non ancora). L’unica via di salvezza è il pentimento: una
valanga di angeli è già pronta a raccogliere e catalogare
le nostre buone azioni; decollano dal Parlamento, dal grande e dal piccolo
schermo, dalla narrativa internazionale ed atterrano in casa nostra, con le
nostre sembianze, tanto che li confondiamo con dei cialtroni. Altro che
cialtroni, essi sono la prova provata che Dio è più vicino di quanto si pensi.
Angeli, paradisi, profezie di celestino, siddharta da
hard-discount, pietà, solidarietà, salvezza, colombe
e panettoni, il mercato è sovraffollato di buoni
sentimenti, quasi stucchevole. Mi chiedo come mai non siano ancora state
rispolverate le indulgenze, visto che ci siamo: si
potrebbero ottenere con una raccolta-punti (consoli una vecchietta dopo che ha
ritirato la pensione, eviti di investire un senegalese che vuole lavarti il
parabrezza, fai uscire di casa una mosca al posto di schiacciarla sul vetro, e
ti guadagni le alucce; se poi riesci ad educare i
tuoi figli affinché non uccidano la nonna per comprarsi la droga, allora te ne
vai direttamente a fare la pubblicità del caffè con Solenghi
e San Pietro).
Tutto questo non fa ridere e, inoltre, in questa rubrica si dovrebbe
parlare di letteratura. Ma anche qui siamo messi
piuttosto male: da una gli scrittori buoni, nessuna sorpresa, nessuno sbalzo di
temperatura, tanti luoghi comuni buoni per tutte le stagioni, continue infilate
di soggetto-predicato verbale-oggetto;
dall’altra, i cattivi, la versione alla moda del Male, con lo splatter-punk-trash-pulp
riciclato dall’America dello scorso decennio, violenza, disastri, cannibalismo
e feticismo, coprofagia, piccoli imberbi Savonarola che agognano il nuovo
millennio descrivendo il tempo attuale come Sodoma e Gomorra.
Dicevamo, qui si parla di letteratura.
Storie di primogeniti e figli unici di Francesco Piccolo (Feltrinelli) è un bel
libro: se ne sta tranquillo, fuori dalla mischia,
anche se qualcuno vorrebbe infilarcelo a tutti i costi inventandosi, per
l’autore, una definizione come “scrittore vegetariano” in contrapposizione agli
antropofagi di cui sopra.
Nove racconti scritti con il tono giusto si imprimono
nella memoria, no, anzi, più che altro la sollecitano, ne risvegliano i ricordi
sopiti dell’infanzia, dell’adolescenza, dei primi amori e delle caramelle
colorate che non tornano più; ma non c’è frustrazione, nessun rimpianto mieloso
del tempo che è passato, nessuna psicoanalitica ricostruzione di quali traumi
infantili abbiano determinato il comportamento di un adulto; soltanto delle
belle storie, soprattutto “Quando il dito indica la luna”, “Dal lato della
strada”, “Santino”, “Per terre assai lontane”. Anche
il linguaggio, la scrittura, si adegua di volta in volta agli stati d’animo
dell’io-narrante, alla sua età anagrafica, al suo battito cardiaco. È come se
guardassimo una nostra fotografia e ricordassimo sempre meglio il luogo, i
personaggi, gli odori, le parole stesse, le emozioni, la temperatura che
facevano da contesto quando ci fu scattata, tanti anni
fa.
E poi c’è il vero
gusto del libro, delle parole una dietro l’altra, ma non secondo un ordine
stabilito. Piuttosto, magico.
«Col tempo avrebbe provato piacere a muoversi in quel mare, a scartare,
scartare e infine scegliere il libro che più gli interessava, e leggerlo e sottolinearlo, e vedere man mano le pagine gonfiarsi sotto
le dita, tanto che le pagine di sinistra diventano più affascinanti di quelle
di destra, perché ogni nuova pagina di sinistra si posa su tutte quelle che hai
già letto, mentre quelle di destra sono piatte perché intonse. Eppure
all’inizio di un libro il piacere è inverso, le pagine di destra pure se
intonse sono tante e voluminose, mentre quelle di sinistra pure se sottolineate, sono molli, fragili e faticano ad aprirsi del
tutto. Poi si va avanti e pian piano il fascino si trasforma.
Lentamente passa da una parte all’altra, e c’è un momento, ci deve essere un
momento, un attimo che è quello in cui la preferenza passa dalla pagina di
destra a quella di sinistra, eppure quell’attimo non
lo scopri mai, vuoi perché è sottile, sfuggente, vuoi
perché la lettura ti distrae, e forse un libro ha questo potere magico di
concentrare le pagine più avvincenti proprio quando il fascino sta per passare
dalle pagine di destra a quelle di sinistra, ma non lo scopri mai, ti ritrovi
ad aspettare con ansia di voltare la pagina destra per toccare la sinistra e
ormai lo devi accettare come un dato di fatto, qualcosa che è avvenuto e non te
ne sei accorto».
Mai sentita così bene di Rossana Campo (Feltrinelli) è un libro
vivace, magari “non adatto ai minori”, ma che non cade in penose forzature come
la defecazione in un barattolo d’orzo (Elena Soprano, La maschera) o lui che scrive “merda”
col rossetto sul petto di lei e che agogna un
tagliacarte nell’orecchio e che vuole che sempre lei reciti Baudelaire
con un banana in bocca (!) (Isabella Santacroce, Destroy).
La Campo scrive di un
gruppo di ragazze italiane che vivono a Parigi, riunite intorno a un tavolo per
mangiare la pasta, e che in realtà non stanno ferme un attimo e parlano,
parlano di film e di situazioni tragicomiche, di tutto e di uomini (che non
sono tutto!). Una festa colorata, piena di lacrime e di
risate, di corse a perdifiato e di fughe senza scampo. Anche qui, nessun insegnamento, nessuna ricetta per la felicità; ai
saggi l’ardua sentenza.
Ovviamente, non avendo ancora letto gli altri suoi libri (è appena uscito
L’attore americano, Feltrinelli), non posso garantire che Rossana Campo abbia conservato la capacità di rimanere su questa
felice lunghezza d’onda e che non sia stata invece - è il caso di usare questa
parola - “fagocitata” dai suoi colleghi contemporanei. Ma questo Mai sentita così bene mi è piaciuto,
mi ha fatto ridere, in un momento in cui ne avevo
voglia (i libri sono inscindibilmente legati ai “momenti” in cui vengono letti,
o no?). Il divertimento che le protagoniste del romanzo inseguono a tutti i
costi, non senza qualche scetticismo, è davvero
trasmesso ai lettori.
«Ragazze, siamo in piscina. Io che scendo piano dalla scaletta, lui che
si tuffa giù dal trampolino, dà una gran culata, spruzza acqua tutt’intorno e grida ARRIVOOOOO... Io
nuoto facendo finta di non conoscerlo. Lui si esibisce in
stile libero, delfino, farfalla, travolge dei bambini. Allora gli grido, ehi, vacci piano. Lui punta verso di me, State a sentire adesso, dice la Nadia. Punta verso di me, s’infila
sott’acqua e mi tira giù per le gambe. Mi è venuto un colpo,
non me l’aspettavo. Ho bevuto da matti. Lui fa: ou,
testona, non mi venire a morire qui adesso! Io appena riprendo fiato... Sentite, sentite adesso! ...gli dico: vaffanculo, Gimmy. A questo punto lui ride e mi prende la testa e
l’avvicina alla sua, pian piano. La sottoscritta allora chiude gli occhi e
aspetta di essere baciata. E invece? E invece, boing, una testata della
madonna. CHE COSA? Invece di baciarti ti ha tirato una
testata? Sì. La Ale dice: Tu
insieme all’acqua ti sei bevuta anche il cervello».
Venite venite B-52 di Sandro Veronesi (Feltrinelli) è un libro
intelligente. Ci ricorda che persino una lista della spesa, una serie di
flashback in ordine alfabetico, una descrizione da diagnosi medica dei
personaggi, possono fare letteratura se ben amministrate e miscelate. Ennio Miraglia che scappa dai casini che ha creato forse senza
colpa, sua figlia Viola che invoca un bombardamento aereo sulla propria casa,
la moglie di Ennio che non ne può più del marito, una
serie di altri personaggi che prendono vita man mano che il libro avanza con
più stili e piani ed escamotage
narrativi. È una storia intricata e plausibile, quella di Veronesi: il disegno
crudele di un’Italietta ciarliera e conformista,
comicamente tratteggiato come una commedia. Una dote che ci distingue dai vari
cugini europei è quella di saper sempre
sdrammatizzare; un difetto, quello di impegnarci così a fondo in questa
impresa, da farci dimenticare addirittura le cause dei nostri drammi: i
protagonisti di Veronesi vivono ciascuno il proprio disagio, ma probabilmente
non saprebbero spiegarlo. E rimangono stupiti se la
sgradevole sensazione, per un istante, si affievolisce. Forse hanno tutti la consapevolezza di essere, nel bene e nel male, i
veri artefici del proprio destino...
«Paura? E di cosa? Paura per esempio del piccolo
impetuoso fantasma che proprio in quel momento sfrecciava tra i cespugli
(“CORNIOLI!”) al confine del suo campo visivo? Che
cos’era? Che intenzioni aveva? Oppure paura di essere
infettata, piuttosto, dall’armonia della quale quel luogo trasudava, poiché
ormai i suoi desideri erano tarati sulla certezza che solo peggiorando fino
alla cancrena le cose avrebbero potuto veramente cambiare, e dunque ogni
accenno di pace che non venisse dopo una vera
catastrofe era in realtà una trappola? Ma come si
faceva, in un posto simile, a desiderare la bomba? Con tutti quegli uccelli che
si lasciavano vedere perfino da lei (“ALLOCCO!”, “CINCIALLEGRA!”,
“PETTIROSSO!”, “SASSELLO!”, “MERLO!”, “TORDO!”), così lontani dall’odore di fritto
delle paninoteche, dal neon delle insegne, dalle spaghetterie col televisore
acceso su Videomusic e quelle orride, orride, orride griglie violette sulle
quali friggono d’estate le zanzare, come si faceva lì a
invocare l’ultima speranza che rimaneva? Una folata di vento le passò tra i
capelli, facendola rabbrividire: davvero, paura di cosa?».
Il filo conduttore dei libri scelti, stavolta, manca del tutto. Ma a ben guardare tutti e tre sono lontani da un altro filo,
quello che regge i burattini delle nuove mode letterarie: buonismo
e pulp, pentimento e peccato, come si
diceva all’inizio.
La stazione d’arrivo del nostro treno è che, insomma, si può ancora
esistere e resistere senza che angeli, fango, sangue e te deum, facciano da padroni. Va prestata
(la giusta) attenzione al neo-millenarismo dilagante, tanto per sapere di cosa
ci saremo dimenticati tra un secolo e anche meno, ma
allo stesso tempo, in un periodo che davvero è violento e pieno di
mistificatori e truffatori, non si può rinunciare alla fiducia nella propria
intrinseca vitalità ed alla capacità, che ognuno dovrebbe coltivare
autonomamente, di reagire al brutto ed al male.
E, in più, si può
leggere una narrativa italiana che non sia una rimescolatura
di vetusti temi e stili statunitensi o che non ci tratti come degli idioti che
non saprebbero capire le “cose difficili”.
© Paolo Izzo
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