La colonna infame

(da Quaderni Radicali n. 50/51 – novembre 1996)

 

Parleremo degli untori e dei loro aguzzini. Dei malati e dei falsi moralisti, dell’angoscia collettiva e dello sciacallaggio; della salute cagionevole e dell’insania dei savi.

Perché c’è gente che urla sottovoce e ci racconta di incipienti epidemie, ancora controllate, ma pericolose. C’è gente che dice di non preoccuparci perché la malattia non colpirà mai i buoni, i giusti.

C’è qualcuno che piano piano alza il tono, che comincia ad infatuarsi, che butta giù una bozza di decalogo. Forse vuole soltanto suscitare scalpore, furore, stupore, fragore; tutto ciò che faccia rima con “televisore” gli va bene. Perché è lì dentro che vorrebbe passare tutta la vita, per apparire, magari, proprio nell’istante in cui si erge a paladino del Bene, della Morale; con la spada divina a falciare le teste di piccoli appestati.

Ecco i moderni Unti del Signore! Puniscono gli untorelli, in un urto semantico senza precedenti; con uno stridìo la cui eco li porti sulle enciclopedie, sui libri di storia.

Circoscrivono i morbi, riempiono i sanatori, tappano le carceri, nascondono i cadaveri. Saranno quelli che hanno perdonato olocausti antichi, ma moralizzato nuovi flagelli.

Succede qualcosa di strano. Nemmeno te ne accorgi e già è diventato quasi impossibile offrire aiuto agli appestati; è tutto sotto controllo, non ti immischiare, sii buono e giusto, vedrai che non ti succede quello che è successo a loro. Fa’ finta di niente, non è vero che li abbiamo lapidati, era solo un esperimento scientifico. Dobbiamo capire, scoprire un vaccino.

Appunto. Non ci permettono nemmeno di ricordare, da laici, che a scagliare la prima pietra debba essere chi è senza peccato: le nutrite schiere degli ipocriti sono già pronte a sommergerci con una gragnuola di piccoli macigni.

Intanto il morbo avanza, contamina tutti, senza esclusione, senza soluzione di continuità. Quelli che ci davano addosso, ora chiedono il nostro aiuto; chi è riuscito a guarire, nutre soltanto la vendetta.

E allora ci si deve limitare ad una cronaca: possiamo soltanto oggettivizzare, stare a guardare. L’intervento non ci è permesso, la rivolta sarebbe soffocata. L’unica soluzione sembra quella di seguire l’esempio di Albert Camus che, cinquant’anni fa, con La peste (Bompiani), raccontò...

La città di Orano è il teatro della malattia e di una quarantena infinita; protagonisti, in ordine sparso, sono padre Paneloux, il dottor Rieux, il signor Cottard, il giornalista Rambert, Tarrou: hanno tutti un nome e un ruolo che li diversificano l’uno dall’altro, ma solo la peste li unisce, separandoli dal resto del mondo. Con l’avanzare della morte, con l’isolamento della città, il terrore di tutti lascia il posto all’abitudine dei pochi: convivere con la peste, ridurre la speranza, adeguarsi...

 

«E per tutta una settimana i prigionieri della peste si divincolarono nei limiti del possibile; alcuni di loro, come Rambert, arrivavano persino a immaginare, lo si vede, di agire ancora da uomini liberi, di poter ancora scegliere. Ma effettivamente si poteva dire che allora, alla metà del mese d’agosto, la peste aveva ricoperto ogni cosa: non vi erano più destini individuali, ma una storia collettiva, la peste, e dei sentimenti condivisi da tutti. Il più forte era quello della separazione e dell’esilio, con tutto quanto comportava di paura e di rivolta. E per questo il narratore crede opportuno, in questo culmine del caldo e della malattia, descrivere, in maniera generale e a titolo d’esempio, le violenze dei nostri concittadini vivi, i seppellimenti dei morti e la pena degli amanti divisi l’uno dall’altro».

 

 

Quest’anno è uscita invece quella che dobbiamo considerare una rivisitazione moderna del capolavoro di Camus: Cecità di Josè Saramago (Einaudi). Non più morti, se non pochi; soltanto ciechi. Sempre di più, sempre più velocemente. Un divenire scandito dalla stessa tecnica di scrittura che è un tutt’uno, senza virgolette, apici, corsivi e compagnia bella. Un unico flusso racconta, dal primo caso alla guarigione inattesa, il diffondersi della cecità, che non risparmia proprio nessuno; anche se con una certa gradualità che permette all’autore di affrontare tutti i temi del confino, dell’odio, della presunzione di salvezza e della certezza della prossima fine. La cecità degli occhi è metafora di quella del cuore e l’inesorabile calare del buio totale insegna molto presto alle sue vittime brancolanti che a nulla serve opporsi. Solo l’organizzazione può essere utile, ma purtroppo i modelli sono quelli dell’oligarchia, dello stato militare; non ci sono altre vie. I deboli - come sempre - sembrano destinati al fallimento, ma ben presto si riveleranno i più forti (sembra un detto evangelico, ma ci scuserà Saramago che, peraltro, di parabole e di proverbi popolari fa largo uso).

Nessun personaggio ha un nome, come se l’avesse perduto insieme alla vista: un medico anche qui, come in Camus, ma soprattutto sua moglie - rimasta incredibilmente l’unica vedente - riportano un minimo di ragione nella più assoluta confusione.

 

«L’unico miracolo che possiamo fare sarà quello di continuare a vivere, disse la moglie, difendere la fragilità della vita giorno per giorno, come se fosse lei la cieca, e non sapesse dove andare, e forse è proprio così, forse la vita non lo sa davvero, si è abbandonata nelle nostre mani dopo averci reso intelligenti, e noi l’abbiamo portata a questo, Parli come se fossi cieca anche tu, disse la ragazza dagli occhiali scuri, In un certo qual modo è vero, sono cieca della vostra cecità, potrei forse cominciare a veder meglio se fossimo più gente a vederci».

 

 

Arriviamo infine all’ultimo ospedale, alla terza malattia; alla scrittura di Gesualdo Bufalino che è bellissima e che andrebbe incontrata almeno una volta nella vita. Lo scrittore siciliano, recentemente scomparso, involontariamente e giustamente famoso, ci ha sempre condotti attraverso i luoghi silenziosi della memoria e della vita, fuggendo ogni volta lo scalpore, ma attento a mostrare le minuzie e le sfumature dell’animo umano con un linguaggio che rasenta ogni volta l’altisonante e persino il barocco.

Chiudiamo questa trilogia proprio con l’opera che segnò l’autorevole debutto di Bufalino: Diceria dell’untore (Bompiani). Appunto.

È la storia, realmente vissuta dall’autore, di una degenza nel sanatorio “La Rocca”, vicino a Palermo. Il protagonista, un reduce della seconda guerra mondiale, si trova a contatto con un gruppo di “esiliati”, tutti destinati a non sopravvivere a se stessi, a non lasciare traccia di sé in un mondo che per un motivo o per l’altro li ha dimenticati...

Ancora un prete, un medico, una donna, fanno da sfondo e da coprotagonisti di una vicenda drammatica, colma delle sofferenze di chi non può guardare oltre l’oggi che è già buio di per sé. L’unico superstite di un miscuglio di malattie sarà l’io narrante, l’unico che riaffronterà il mondo esterno dopo una convalescenza che più volte ha tentato di ricacciarlo, insieme agli altri, nell’isolamento da cui è partito. Nemmeno l’amore per Marta - l’amore tra due malati, quindi - può qualcosa per guarire dai... mali oscuri.

 

«Ma io - a tal punto m’avvilivano questi scambi di consegne e l’attesa supina del colpo - non so quante volte al giorno mi sentivo tentato di salvarmene con una inadempienza o bravata. Certo, fossi stato sicuro di non lasciarmi dietro a ogni passo le mie lumacature e polluzioni d’untore, non sarei rimasto a covare nel pagliericcio la febbre come una cimice, ma sarei sceso a consumarmi tra la gente, in fretta, ero troppo vigliacco per morire a rate. Questo nei primi mesi, poi alla esistenza smozzicata degli altri finii con l’assuefarmi, e dal loro consorzio non volli più disertare. Con essi ho spartito, all’ombra della stessa bandiera gialla, ogni elemosina dell’ora, tutti gli inganni e i disinganni delle loro carriere, benché non la fine repentina che le concluse. Ma se di tanti io solo, premio o pena che sia, sono scampato e respiro ancora, è maggiore il rimorso che non il sollievo, d’aver tradito a loro insaputa il silenzioso patto di non sopravviverci».

 

 

Più del solito questa rubrica sarà risultata confusa e ancor meno del solito sarà chiaro il messaggio lanciato come un disperato SOS. Gli omissis circa la guerra (cui ciascuno dei tre romanzi a suo modo allude) o intorno al mondo esterno (quando c’è) dei non-malati, sono nient’affatto casuali, come pure le forzature.

Fa parte della malattia... Leggiamo, leggiamo e ci pare di vedere legami dappertutto, prima tra i libri stessi e poi, persino, tra questi e la nostra vita; così decidiamo che i libri stanno parlando di noi, con le nostre parole...

Si faccia riferimento comunque al foglietto illustrativo e ci si consenta un ultimo parere (ed anche questo in apparenza non c’entra niente!) circa la lettura di questi tre romanzi: sarebbe bene averli sotto gli occhi quando si è molto preoccupati per qualche bazzecola. È schifosamente umano che, dopo aver assistito, guardato, ascoltato un’immane tragedia, ci si senta meglio, i piccoli disagi quotidiani risultando niente in confronto a epidemie o stragi. La morbosità, la curiosità ossessiva, il “meglio a te che a me” sono di questo mondo e ci consolano; è un fatto inevitabile. Magari potremmo cercare di vergognarci un po’ per questo nostro atteggiamento “più che umano”, ma - per carità - chi pretende di rimanere immune da una qualsiasi malattia non scivoli nella falsa commiserazione o, peggio, nella convinzione di essere sano perché santo! Ché, della prima, non sappiamo proprio che farne e la seconda ci disgusta e rischia di favorire, alla fine, dissennate rivolte.

 

 

© Paolo Izzo

 

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