La “fabula” di sfogo
(da Quaderni Radicali n. 48/49 – dicembre 1996)
Ci sono momenti e ci sono persone. In alcuni dei primi, alcune delle
seconde possono compiere soltanto un’azione: scrivere. Buttare
fuori tutto; prendere carta e penna e vomitare emozioni nel sacchetto della
vita. Gettarsi in infiniti sproloqui al solo scopo di sconfiggere tutti
quei nemici che cominciano per “in”: l’inquietudine, l’inerzia, l’inutilità,
l’insicurezza, l’inadeguatezza.
Quelle persone non hanno alternative, sebbene alternative
e consigli siano gli elementi più facili da reperire in giro,
soprattutto dagli amici. Ma quelle persone non le vogliono, le alternative; semmai indirizzeranno lettere, riempiranno
diari, fingeranno appuntamenti per le loro agende: faranno urlare le loro
penne. Semplicemente, scriveranno un romanzo. Inventando una storia che
rassomigli loro, che li racconti tra virgolette, che li risolva...
sempre tra virgolette, che sono poi il vero segreto per celare la realtà dietro
l’invenzione.
Così si sfogano quelle persone che di droghe, di psicanalisti, di istruzioni sanno quasi sempre fare a meno. Così questi
anarchici del vero, si fanno conquistare e conquistano con la finzione, creano
soluzioni laddove non sembra che ne esistano. Giusto
per ritrovare la pace, giusto per rincorrere perlomeno la serenità.
Ed è forse
attraverso questa “fabula” di sfogo che moralisti come Kierkegaard
possono concepire un Diario del
seduttore o che tranquilli entomologi come Nabokov
possono modellare una Lolita.
Si può giungere fino ad agognare una finta morte pur di sconfiggere una realtà
nemica: si pensi a Pirandello, al suo Il fu Mattia Pascal.
Scegliere i vagoni del nostro treno è stato arduo, tanti sono gli
scrittori che trovano o hanno trovato nei romanzi una via d’uscita; per ogni
autore, infatti, in un modo o nell’altro, si può credere che valga il principio
che la narrativa aiuta nel momento del bisogno...
Dunque, per la cernita, ho dovuto seguire due parametri: il primo è il
viaggio, onnipresente in questa rubrica, che è come al
solito una specie di quinta dimensione, in bilico tra tempo, memoria e reale
spostamento fisico.
La seconda caratteristica che contraddistingue i romanzi scelti è che
ciascuno di essi risolve, allontana, sfoga
un’inquietudine diversa, che verrà segnalata all’inizio di ciascun paragrafo.
Sipario.
L’angoscia
esistenziale
In un saggio intitolato “Nel ventre della balena” e pubblicato in
Inghilterra nel 1940, George Orwell
descriveva Tropico del Cancro
di Henry Miller e
suggeriva, tra l’altro: “...leggetene cinque, dieci pagine e proverete quel
particolare benessere che viene non tanto dall’intendere quanto dall’essere intesi.
‘Quest’uomo sa tutto di me’ voi pensate, ‘ha scritto
tutto questo proprio per me’...”. Di Tropico del Capricorno non poteva
parlare poiché “la polizia e la dogana mi hanno finora impedito di
procurarmelo. Ma mi stupirebbe s’egli [Miller] vi avesse raggiunto il livello di Tropico del Cancro...”.
Quanto a me, mi è capitato giusto il contrario: se
non ho potuto soffrire il primo romanzo di Miller,
proprio Tropico del Capricorno
(Mondadori; n.b.: nella versione Oscar è contenuto il
saggio citato) mi ha invece procurato il “particolare benessere” di cui disse Orwell.
C’è, in questo romanzo, l’esatta descrizione dello smarrimento dell’uomo,
della sua caduta provvisoria nelle spirali della routine e dell’alienazione,
della sua catarsi finale attraverso, appunto, lo sfogo letterario tutto
personale, talvolta incomprensibile, generato magari da un piccolissimo evento
che assume dimensioni gigantesche e strappa il velo del torpore: una lettura
chiarificatrice, l’incontro con una donna fatale.
C’è la scoperta del proprio ruolo da parte di chi, anticonformista,
disadattato, straordinario, dubita di averne uno nel mondo reale; c’è lo
stupore che un uomo fuori dagli schemi prova ogni
volta che incontra la tipicità o l’invidia, l’automatica sudditanza psicologica
di chi, pur trovandosi nella legittima regolarità, sogna o capta l’esistenza di
un mondo parallelo, surreale, fatto di desideri appagabili e di serenità
raggiunta con un rapido (seppure travagliato) schiocco di pensieri.
Sarà stato pure presuntuoso, Henry Miller, ma è riuscito a
trasformare la propria sensazione di disagio nei confronti della vita nella più
corazzata forma di pace interiore che egli stesso potesse auspicare.
«E perché la gente mi ascoltava così volentieri
quando mi presentavo per un posto? Perché mi trovavano
così divertente? Certo per il motivo che io avevo sempre
messo a profitto il mio tempo. Recavo loro un dono - dalle ore in
biblioteca, dai vagabondaggi per le strade, dalle esperienze intime con le
donne, dai pomeriggi al burlesque, dalle visite ai
musei e alle gallerie d’arte. Se fossi stato un povero disgraziato onesto,
disposto ad ammazzarsi di lavoro per un tanto alla
settimana, non mi avrebbero offerto i posti che mi offrivano (...). Dovevo aver
qualcosa da offrire che essi, forse senza saperlo, stimavano più dei
cavalli-vapore (...). Sui punti fondamentali ci vedevo
chiaro, ma dinanzi ai meschini particolari della vita quotidiana, restavo
attonito. Questo medesimo sbalordimento lo dovetti verificare su scala
colossale prima di poterlo intendere».
Le relazioni con gli
altri
Non deve essere per niente facile sfogare la propria angoscia quando
questa è nutrita e fomentata da persone realmente esistenti e non dagli
inafferrabili fantasmi dell’inconscio.
Se si considera il tragico suicidio di Ernest Hemingway, tutti i
discorsi fatti sin qui circa possibili vie d’uscita anche per i drammi
peggiori, vanno a farsi friggere. Ma è indubbio che lo
scrittore statunitense abbia almeno provato, con una vastissima produzione
letteraria, a fare i conti con la propria esistenza. Una testimonianza valida
è, più di altri romanzi, Il giardino dell’Eden (Mondadori), pubblicato postumo,
rimaneggiato, estratto da un manoscritto di mille pagine, mai portato veramente
a termine dall’autore, il quale non riuscì mai a trovargli una forma e una
collocazione (forse perché, si dice, troppo facile sarebbe stato l’accostamento
della pazza Catherine con la quarta moglie dello
scrittore, Mary Welsh).
Al di là del ménage à trois
che i protagonisti del libro instaurano, ciascuno vive per sé, ma morbosamente
aggrappato agli altri. È Hemingway stesso che cerca
appigli, lontano com’è dalle rive sicure di libri come Fiesta, ma il suo stile sotto
tono e più che inquieto tradisce l’inanità dello sforzo narrativo. Il romanzo
scivola così in un vortice, che sembra condannarlo ad un finale triste. E a nulla valgono le effusioni che i tre personaggi si
scambiano o l’atmosfera soffusa della Costa azzurra. Ma,
colpo di scena, il finale rosa scelto tra diverse conclusioni, quasi tutte
tragiche, è forse il barlume di speranza che si è voluto regalare ad un Hemingway disperato e confuso.
«“Scrivilo” disse David. “Preferisco non
sentirlo ora”. “Ma io non so scrivere, David”.
“Saprai” disse David. “No. Ma lo racconterò a qualcuno che sappia scriverlo”
disse Catherine. “Se mi fossi amico
me lo scriveresti tu. Se mi amassi davvero ne saresti
lieto”. “Io voglio soltanto ucciderti” disse David. “E
la sola ragione per cui non lo faccio è perché sei pazza”. “Non puoi parlarmi
così, David”. “No?”. “No, non puoi. Mi senti?”. “Ti sento”. (...) “Non puoi
dire cose simili. Non lo sopporto. Divorzierò”. “Sarebbe un gesto molto
apprezzato”. “E allora resterò sposata con te e non ti
darò mai il divorzio”. “Sarebbe carino”. “Ti farò tutto quello che vorrò”. “Lo
hai già fatto”. “Ti ammazzerò”. “Me ne frego” disse David».
La paura dell’odio
Dopo la fine della seconda guerra mondiale, l’Italia
cercava di dimenticare, rimboccandosi le maniche per ricostruire quanto era andato
perduto; un sospiro di sollievo doveva aleggiare dappertutto. Ci si mise Ennio Flaiano a guastare la festa:
il suo Tempo di uccidere (Rizzoli) dovette arrivare come una doccia gelata.
Ma qualcuno doveva pur raccontare, a futura memoria, la brutta pagina
della campagna d’Abissinia: Flaiano si è caricato un
macigno sulle spalle, deve averne sofferto; poi ce l’ha
trasferito, perché ne condividessimo il peso.
Il giovane ufficiale protagonista del romanzo è il prodotto drammatico di
una campagna militare inutile, odiosa; pieno di silenzioso rancore e di
dolorosa apatia, vive dimenticato dall’Italia, ai margini del suo battaglione.
La sua storia prende il via da un banale mal di denti e si trasforma in un
orribile gesto gratuito.
Ma uscirà indenne da ogni male, quasi purificato; così come tutti gli
altri - aguzzini, stupratori, assassini, speculatori, sciacalli - verranno perdonati dal disinteresse generalizzato; un’Africa
abbacinante e desolata assisterà incredula al ritorno in patria dei suoi
padroni e nemici, immacolati come angeli. Solo uno sguardo vecchio di duemila
anni perseguiterà, forse, la loro coscienza: amara rivincita di un continente
profanato.
«Profonda bellezza di lei nel sonno. Soltanto nel sonno la sua bellezza
si rivelava completamente, come se il sonno fosse il suo vero stato e la veglia
una tortura qualsiasi. Dormiva, proprio come l’Africa, il sonno caldo e greve
della decadenza, il sonno dei grandi imperi mancati che non sorgeranno finché
il “signore” non sarà sfinito dalla sua stessa immaginazione e le cose che
inventerà non si rivolgeranno contro di lui. Povero
“signore”. Allora questa terra si ritroverà come sempre; e il sonno di costei apparirà la più logica delle risposte.»;
«“(...) supponiamo che io spari un colpo al ventre a questa ragazza...” Già mi chiedevo cosa poteva capirne il maggiore (...). “Se ha voglia di sciupare cartucce, faccia pure” rispose. Poi
aggiunse: “Le racconterò un fatto”. E raccontò di una
strage alla quale aveva assistito. “Erano briganti, e il colonnello li voleva
ammazzare tutti, anche i feriti. Occhio per occhio, diceva. E
dove trovava un ferito, sparava. Sparava alla pancia. E quelli restavano a
guardarlo, coprendosi gli occhi con la mano, lo guardavano di
tra le dita. Venne il dottore e disse: ‘Ma se
lei non gli spara alla testa, non conclude nulla con questa gente’.
Allora il colonnello cominciò a sparare alla testa del primo ferito che vide.
Il cranio scoppiò e il colonnello si trovò imbrattato. Se
l’avesse visto! Era su tutte le furie. Investì il dottore di insulti:
‘Bei consigli mi dà, lei’ urlava. Dovette andarsi a
cambiare”».
Il gusto della
parola
Meno male che c’è Daniel Pennac, così ci
rilassiamo. Autore della fortunata tetralogia che vede protagonista Benjamin Malaussène, il capro
espiatorio più famoso di Francia, Pennac non ha da
sfogare altro, spero di non sbagliare, se non l’innata voglia di raccontare: il
suo è un desiderio... inenarrabile. Solo chi ha provato la sensazione quasi
angosciosa di mettersi davanti un blocco di fogli per riempirlo furiosamente di
parole, sostenuto nell’impresa esclusivamente da una volontà schizofrenica di
comunicare in silenzio, può capire il sano desiderio di Pennac.
Il Signor Malaussène
(Feltrinelli) è l’addio sofferto, ma divertentissimo
ad una serie di personaggi che rimarranno a lungo nella memoria di chi li ha
conosciuti. Adesso ci mancherà qualcosa, come se d’un tratto finisse
“Beautiful”; eravamo così abituati a Julie, Jérémy, Il Piccolo, Verdun, È Un Angelo, Pastor, Van Thian,
Rabdomant, Suor Gervaise e
a tutta la compagnia di Belleville, fino al cane Julius, che adesso, noi lettori di Pennac,
andremo in giro spaesati, forse in cerca di reliquie
del cinema Zèbre...
«La zolletta di zucchero sembra volteggiare bianchissima in un cielo
nerissimo. Cade senza far rumore nel mio caffè. Il commissario di divisione Rabdomant inizia la sua omelia. “Le ragioni per cui l’ho convocata qui sono molteplici, signor Malaussène
(...). Ricapitolando: intralcio alle operazioni di sequestro dell’ufficiale
giudiziario La Herse, violazione
di domicilio (...). Sei capi d’accusa solo nelle ultime tre settimane! (...).
In fatto di crimini, lei e la sua famiglia costituiscono proprio una piccola
media impresa, signor Malaussène! (...). Per non parlare della sua propensione a far convergere su di lei
tutti i sospetti disponibili appena si presenta un caso abominevole
(...). Vedo profilarsi all’orizzonte una vicenda atroce che occuperà le prime
pagine dei giornali e di cui lei sarà l’epicentro. Come sempre lei ci si immischierà, in tutta innocenza (...). Non protesti, la
conosco, è praticamente inevitabile”».
È un lieto fine, la scelta di questo romanzo:
vorrei che si capisse, vorrei che si sentisse.
Se in qualche
passaggio della rubrica, o in tutto il testo, non sono riuscito a trasmettere
un messaggio chiaro, chiedo perdono. Ma penso di avere diritto ad una attenuante: l’intento è quello, a fin di bene, di
diffondere la purissima gioia di leggere come un anticorpo contro i virus della
noia, dell’angoscia, dell’odio. Certo, la “fabula” di sfogo, una volta aperta,
può essere più violenta di un tornado, ma la sensazione di calma che segue ogni tempesta è davvero impareggiabile.
© Paolo Izzo
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