“L’essenziale è invisibile agli occhi”
(da Quaderni Radicali n. 46/47 – dicembre 1995)
Di nuovo la nostra rubrica si occupa di viaggi. Stavolta è una corsa nel
tempo o nella memoria e l’assunto è il seguente: la giovinezza si fonda sul
ricordo. L’improbabilità di tale affermazione ci scagiona forse dall’accusa di essere banali, poiché è assodato che rimembrare è un’azione
che calza perfettamente sulla senilità. Ma ogni
calzatura ha bisogno di un piede ed un piede è la base del corpo, come la
giovinezza lo è della vita. Quindi la giovinezza
rimembra meglio! Questo l’ignobile sillogismo.
È vero che ad ogni età, infatti, i ricordi siano un rifugio
indispensabile; ma quando si è giovani, essi hanno un ruolo particolare: sono
creature ed uno sull’altro fanno un’esistenza. È - si
può dire - la fase attiva della memoria: un ragazzo può passare notti intere a
raccontare tutto quanto gli è capitato nei pochi anni che ha vissuto, avventure
estive, delusioni, esami universitari e professori del liceo, libri letti e
libri da leggere. E nel frattempo sta creando nuove
occasioni memorabili, o soltanto lo spera (un’alba che sopraggiunge cullata
dalle parole, un’intesa con chicchessia che nasce sui silenzi).
Così la letteratura; da un lato e dall’altro. Scrittore e lettore sono
due elaboratori di ricordi. L’uno enumera
momenti vissuti nella realtà o nella fantasia, l’altro li incamera, li ri-racconta, se li incolla addosso facendoli propri. La
cosa buffa, magari, è che di un libro non si ricordi affatto la trama, ma
ritorni in mente la musica che si ascoltava durante la lettura; o che del
protagonista tanto amato di un romanzo non sovvenga lì per lì il nome e invece
in seguito lo si dia a un figlio. I libri se ne stanno
lì, nelle librerie, dietro una strisciolina verticale che ne segnala titolo e
autore; eppure è sufficiente, un giorno, parlarne con un amico per vedere
rivelarsi di nuovo tutto il loro mondo. Così accade ai ricordi. Non ci sono
santi: il passato non è passato affatto; è latente.
Si provi adesso a miscelare un giovane “ricordatore”
ed il romanzo che egli scrive: ne viene fuori un’esplosione di suggestione e di
vivacità, di affanno e di pulsione; di latente-passato che fomenta e alimenta un già vivissimo
presente. È esattamente quello che faremo: i nostri tre scrittori saranno “ricordatori” giovani o giovanili, avranno ricordi tremendi
e ideali tenaci, eventi da raccontare o da tenere segreti; oppure semplicemente
avranno vissuto, nel tempo o nella memoria.
“L’essenziale è invisibile agli occhi”, abbiamo scritto. È il segreto che
la volpe confida al Piccolo Principe
di Antoine de Saint-Exupéry (Bompiani). Un aviatore
ricorda il suo atterraggio di fortuna in mezzo al deserto ed il suo incontro
con un bambino, un ometto dai capelli d’oro arrivato dal minuscolo asteroide B
612 per un viaggio lungo un anno sul nostro pianeta. Il piccolo principe ha
parlato con tutti coloro che ha trovato lungo il suo
cammino, senza distinzione, fossero esseri umani o rose o serpenti; a tutti ha
dato confidenza, come ne dà all’aviatore, senza volere nulla in cambio se non
risposte. Schivo, indifferente, lontano, formale, sono aggettivi per un adulto.
Un bambino non è così - o dovremmo dire: non era? - almeno non il piccolo principe:
allegro o triste, ci dà del tu, ma poi dice “s’il vous plaît”;
ci intenerisce con la sua schietta curiosità o ci
stupisce con qualche inaspettata deduzione logica. Fa rallentare il ritmo
frenetico della nostra vita e ci fa riflettere. E
riflettere è anche un po’ ricordare.
« ...se tu mi addomestichi, la mia vita sarà
come illuminata. Conoscerò un rumore di passi che sarà
diverso da tutti gli altri. Gli altri passi mi fanno nascondere sotto terra. Il
tuo, mi farà uscire dalla tana, come una musica. E
poi, guarda! Vedi, laggiù in fondo, dei campi di grano? Io non mangio il pane e
il grano, per me è inutile. I campi di grano non mi ricordano nulla. E questo è triste! Ma tu hai dei
capelli color dell’oro. Allora sarà meraviglioso quando mi avrai addomesticato.
Il grano, che è dorato, mi farà pensare a te. E amerò
il rumore del vento nel grano...”. La volpe tacque e guardò a lungo il piccolo
principe: “Per favore, addomesticami”, disse.»;
«”Buon giorno”, disse il piccolo principe. “Buon giorno”, disse il
mercante. Era un mercante di pillole perfezionate che calmavano
Antoine de Saint-Exupéry finì di volare
nel 1944, poco dopo la pubblicazione del suo Il Piccolo Principe. Esattamente trent’anni
prima era morto Alain-Fournier, in una trincea presso
Verdun, durante
Meaulnes, “Le Grand Meaulnes”, conduce, chi
vuole seguirlo, in un’avventura e in un segreto; lo attrae verso il primo
libero sentimento di ogni essere umano, quasi innato,
sicuramente esclusivo, incondizionato e sofferto; ostacolato e distratto,
semmai, da contingenze che sono tutte esterne, innamoramenti compresi: non è
l’amore, infatti; è l’amicizia, la prima libera scelta di un giovane, subito
dopo l’amore per i genitori e subito prima dell’Amore.
Una confusione di stati d’animo, proprio come queste
parole, proprio come i ricordi che affollano la nostra esistenza e rendono viva
quella dei personaggi de Il grande
amico (Mondadori).
«Meaulnes non mi diceva perché da tanto tempo
non si era fatto vivo, né quel che adesso intendeva fare. Ebbi l’impressione
che ormai, chiusa la sua avventura, volesse rompere
con me, come si era staccato dal passato. (...) E
cominciò un nuovo inverno altrettanto smorto quanto il precedente era stato
vibrante di una vita misteriosa: la piazza della chiesa senza zingari, il
cortile della scuola da cui alle quattro i ragazzini sciamavano, l’aula dove
studiavo solo, senza voglia... In febbraio cadde per la prima volta la neve e
seppellì definitivamente il nostro vecchio romanzo avventuroso, confondendo
ogni sentiero, cancellandone le ultime orme. Non mi rimase che obbedire al
desiderio di Meaulnes e tentare di dimenticare
tutto».
L’abbiamo detto, arriva l’Amore prima o poi; a
sovrastare ed a comprendere tutto. A ricucire ferite e ad aprirne altre. A
portare quiete dopo la tempesta dei sentimenti, una quiete illusoria; come un
Dopoguerra, ecco! La guerra porta disastri, perdite,
lontananza e tristezza... solidarietà, unione d’intenti, impeto; il dopoguerra
porta alla riflessione, ma se questa è reiterata può anche diventare apatia,
nichilismo; e di certo non è ancora la pace. Così l’Amore; ancora gioie
e dolori: il divenire traumatico dei sentimenti trova una breve pausa, decide
di lottare ancora o di lasciarsi andare. Di annullarsi in
questo nuovo mondo o di viverlo come Il
diavolo in corpo. Proprio come il dopoguerra, l’Amore può essere
l’indice di un conflitto terminato: un’altra deduzione forse spaventosa, per
giungere al nostro terzo libro!
Raymond Radiguet lo scrisse, appena diciottenne, tra il 1920 e il
1921. Pochissimo tempo dopo, anche questo grandissimo scrittore morì: non
sapremo mai quale altro capolavoro avrebbe potuto regalarci. Il diavolo in corpo (Tascabili
Economici Newton) è la storia dell’amore tra un giovane studente e la moglie di
un soldato impegnato al fronte. Tra i due esplode una passione che copre
tristezza e smarrimento per la guerra in atto, ma che soprattutto allontana per
un istante l’immagine equivoca di un ragazzo che interrompe troppo repentinamente
la propria adolescenza per diventare un adulto. Troppo giovane per combattere (ancora la prima guerra mondiale!), egli fa
le veci degli adulti assenti. Nuovamente guerra e giovinezza, insomma; ed
entrambe per il protagonista senza nome de Il diavolo in corpo finiranno troppo presto.
«Niente assorbe più dell’amore. Non si è pigri perché, essendo innamorati
si ozia. L’amore sente confusamente che il suo solo reale diversivo è il
lavoro. Per questo lo considera un rivale. E non ne
sopporta nessuno. Ma l’amore è un ozio benefico, come
la pioggia lenta che feconda. Se la giovinezza è
sciocca, è perché non è stata pigra. Ciò che invalida i
nostri sistemi educativi, è che, per via del gran numero, si rivolgono ai
mediocri. Per una mente operosa la pigrizia non esiste».
Ce l’abbiamo
fatta, forse. Volevamo dimostrare l’indimostrabile ed iniettare del sano
ottimismo. Se non è sembrato questo l’intento, è perché abbiamo viaggiato;
inutile dire che in ogni viaggio c’è un punto di partenza e uno di arrivo. Siamo saliti su questo treno dicendo che la
giovinezza si fonda sul ricordo. La stazione d’arrivo si ricapitola in questo
modo: giovinezza e memoria, guerra e amicizia, amore e dopoguerra, tutti
ingredienti dell’esistenza e della vitalità; probabilmente confusi, mal dosati,
possono lasciare nell’immobilità e nell’inerzia, ma se s’imparasse
a mescolarli bene, verrebbe fuori una pozione persino magica! In barba a tutti quelli che si sentono spaesati, senza ideali,
smarriti, inutili, invisibili. Ma, per amore di
voi stessi, volete reagire?
© Paolo Izzo
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