Andare sempre non importa dove
(da Quaderni Radicali n. 44/45 – giugno 1995)
Viene questa orribile tentazione, è da
vigliacchi: scappare dal Belpaese. Sarà il clima
politico, sarà una certa decadenza delle emozioni, saranno i
sempre più ristretti spazi di libertà... Nello smarrimento generale, l’ipotesi
della fuga finisce per apparire come la più propositiva. Ipotizziamo di
prendere la macchina (l’autostop è vietato, mi sembra), di fare un bel pieno di
benzina e di partire verso il confine. Ci lasciamo dietro i monumenti, la
cultura, le campagne, il mare, la nostra italianità: le lacrime ci appannano la
vista, ma in fondo dobbiamo farlo!
Arriviamo fuori e per poco non ci
cadono addosso le “barriere” che stanno togliendo tra
i paesi europei; se eludiamo la “caccia all’italiano” riusciremo ad entrare in
un ufficio di cambio per comprare la valuta straniera. Rompiamo il nostro
salvadanaio e in cambio ci danno... qualche spicciolo e le figurine dei
calciatori. Tutto questo dobbiamo
farlo!? Sì, magari con un po’ di fatica possiamo aprire un ristorantino
sulla Croisette
di Cannes, perpetuare il mito italiano - a volte sembra l’unico - della pizza
margherita e chi s’è visto s’è visto!
Ma no, che sto
dicendo! Il nichilismo non ci appartiene. Meglio resistere - del resto non c’è
molta scelta - e combattere, sognare tempi migliori, trovare rifugio nella letteratura.
Per scappare ugualmente, ma con classe.
Stavolta viaggiamo con tutti i mezzi di trasporto, come avrebbero fatto i personaggi della beat-generation, di quel
sempreverde On the road di
Jack Kerouac. Non pensiamo ancora alla Patagonia, ai
climi tropicali; per stavolta ci accontenteremo ancora del coast-to-coast, o della Francia retrò: carrozze o vecchie galere, Cadillac od un paio di gambe segneranno il nostro percorso,
guideranno la nostra fuga immaginaria.
Chi non ha letto Lolita?
Un coro di silenzi.
Bene. Ma se c’è qualcuno che ancora non l’abbia letto,
è proprio il caso che si metta in riga. Per sembrare anticonformista può
sempre approdare al capolavoro di Vladimir Nabokov (Adelphi) passando per gli altri capolavori di Vladimir Nabokov: dai racconti de La Veneziana a Il dono,
alla Vera vita di Sebastian
Knight, sono tutti libri straordinari. La perfezione del racconto e mille invenzioni letterarie;
l’utilizzo capillare e quasi intercambiabile di lingua inglese e russa; il
matrimonio perfetto tra la passione del russo e la sua stessa ironia; la calma
indifferenza, comunque, di chi padroneggia più linguaggi e vi si muove
come una rondine solitaria e libera su di uno specchio d’acqua: tanto per
elencare alcune delle caratteristiche di Nabokov e
della sua opera. Per il resto si leggano i suoi libri, che ne parliamo a fare!
Lolita (Dolores-Dolly-Lo)
è una bambina assai giovane e il professor Humbert Humbert è un satiro di mezz’età. Tutto qui? Ma nemmeno per sogno! L’America del Nord scorre dal
finestrino di un’automobile in viaggio: dentro H. H. e Lolita pensano a tutt’altro
che al viaggio; papà e figlia, fa dire la puritana cecità statunitense (un
professore romantico ed una Giovane Esploratrice beneducata!), si amano. È un
amore-viaggio sofferto, pieno di recriminazioni e gelosie infantili da parte di entrambi i personaggi. Ed è straordinario anche quello
che i due si sono lasciati alle spalle (la mamma di Lolita, per un po’ moglie
di Humbert, è un capolavoro) o quello a cui vanno incontro...
«Sapevo di essermi innamorato di Lolita per sempre; ma sapevo anche che
lei non sarebbe stata per sempre Lolita. Il primo gennaio avrebbe compiuto
tredici anni. Entro un paio d’anni avrebbe cessato di essere una ninfetta e si
sarebbe trasformata in una “ragazza”, e poi, orrore degli orrori, in una college-girl»;
«La meta poteva essere qualsiasi cosa - un faro in Virginia, una caverna
dell’Arkansas trasformata in caffè, una collezione di pistole e violini
nell’Oklahoma [...] ma doveva
essere lì davanti a noi, come una stella fissa, anche se al nostro arrivo
Lolita avrebbe probabilmente affettato un conato di vomito».
E passiamo al Viaggio
per eccellenza, a quello di Louis-Ferdinand Céline; gustiamoci una vera enciclopedia degli umani
sentimenti, della parte notturna e oscura di ciascuno di noi. E della tristezza
profonda (ma anche di improvvisi sollievi) che può
recare un Viaggio al termine della
notte (Corbaccio). Leggere quel romanzo è di
nuovo trovarsi su di un mezzo di trasporto, ma
stavolta è per caso. Non è una nostra scelta consapevole. Può passare la banda
dell’esercito per farci decidere di andare in guerra. Può balenarci in mente
l’idea che l’unico modo per raggiungere l’America e sfuggire ad un’avventura
nelle foreste africane sia quello di imbarcarsi sull’Infanta Combitta dopo essere stati acquistati
dal capitano di quella galera, oppure che contando e classificando le pulci
altrui si possano guadagnare dei soldi. Muoversi e
cercare se stessi o, più facilmente, un Robinson che
ci somigli, una Lola qualsiasi (ancora Lola!) ed in fondo essere meno cinici ed
egoisti di quanto si pensi: perché pensare alla propria pelle non è una innata predisposizione, è solo un modo per non farsi
sbranare dagli altri.
È impossibile scegliere un passo significativo
dell’opera di Céline, sarebbe quasi come voler
spiegare lo scibile attraverso l’uso di qualche formuletta:
ci si perdoni se citiamo solo un paio di “appunti” di... viaggio.
«Figuratevi che era in piedi la loro città, assolutamente diritta. New
York è una città in piedi. Ne avevamo già viste noi di
città, sicuro, e anche belle, e di porti e di quelli anche famosi. Ma da noi, si sa, sono sdraiate le città, in riva al mare o
sui fiumi, si allungano sul paesaggio, attendono il viaggiatore, mentre quella,
l’americana, lei non sveniva, no, lei si teneva bella rigida, là, per niente
stravaccata, rigida da far paura»;
«Vivere per vivere, che gattabuia! La vita è una classe in cui la noia è
il professore, è lì tutto il tempo che ti spia, bisogna avere l’aria di essere indaffarati, costi quel che costi, in qualcosa di
appassionante, altrimenti arriva e ti mangia il cervello. Un
giorno, che sia solo una semplice giornata di 24 ore non è tollerabile. Non dev’essere altro che un lungo piacere
quasi insostenibile, una giornata, un lungo coito una giornata, con le buone o
con le cattive».
E a Charles Bukowsky doveva proprio
piacere Céline, se lo ha messo nel suo Pulp. Una storia del
XX secolo (Feltrinelli). Uscito
in Italia un anno dopo la morte di Bukowsky, Pulp è un’accozzaglia incredibile di
situazioni, proprio nello stile che si sta avviando ad essere la prossima moda:
il “pulp” appunto. Quello di Quentin
Tarantino al cinema, ma prima ancora quello dei
fumetti horror, in cui succedono eventi improbabili, violenti e grotteschi.
Si sorride spesso a sproposito con il “pulp”: è un
riso nervoso, qualche volta.
Il Pulp di Bukowsky è meno cruento del previsto, ma c’è veramente di
tutto: la signora Morte scorrazza per Los Angeles in cerca di
anime da accaparrarsi; Nick Belane - “il più
dritto investigatore di L. A.” - si trova a seguire
casi assurdi come quello dell’atterraggio di seducenti marziani ed a scappare
dai creditori via via più violenti e comici; e le
donne, quelle che l’autore ha sempre amato e desiderato, meravigliose,
sensuali...
Non occorre trovare un senso. Non c’è quasi mai. Non occorre cercare
verità. Quelle sono soltanto un miraggio e fanno
sempre male.
«Céline era proprio Céline
o era qualcun altro? A volte avevo la sensazione di non sapere nemmeno chi ero io. D’accordo sono Nick Belane. Ma un momento.
Qualcuno potrebbe gridare: “Ehi Harry! Harry Martel” e molto
probabilmente risponderei: “Sì, cosa c’è?” Voglio dire, potrei essere chiunque,
che importanza ha? Che cosa c’è in un nome?»;
«Cominciai a pensare di passare a un altro
genere di lavoro. Ero lì in attesa di commettere
un’effrazione e registrare una scopata, e non ci provavo nessun gusto. Era solo
un lavoro, l’affitto, la sbobba, aspettare l’ultimo giorno o l’ultima notte.
Sempre ad aspettare. Che stronzata.
Avrei dovuto diventare un grande filosofo, avrei detto
a tutti quanto eravamo sciocchi, a stare in giro a fare andare l’aria dentro e
fuori dai polmoni».
Ecco fatto. Abbiamo viaggiato un altro po’. Abbiamo letto e ci siamo
eclissati. Ora dovremmo alzare la testa e guardare fuori! Oppure metterci a
dormire, come è buona abitudine quando si è finito di
leggere un libro.
© Paolo Izzo
Torna a Vagone Letto
Torna a Recensioni