Le immagini inutili
(da Quaderni Radicali n. 90 – marzo/aprile 2005)
Certe mattine, quando ci svegliamo, abbiamo proprio
l’impressione che il nostro sonno abbia voluto dirci
qualcosa. Il pensiero umano, che non dorme mai, fa così: durante la notte,
sogna e dice. Mentre il corpo riposa, il pensiero
sogna e dice. Per immagini. Arriva un cavallo bianco al galoppo, c’è un cortile
pieno di mare, un uomo alto tre metri disegna, chino su di un
tavolo rettangolare e una donna mescola zafferano e spinaci… Certe
mattine ci viene voglia di modellare l’argilla, di baciare la nostra donna
appena alzata dal letto, di scrivere una poesia. Altri giorni faremmo a pugni
col primo insolente che incontriamo, sbagliamo strada
con la moto, non ci scappa nemmeno un sorriso. Le immagini che arrivano di
notte ci muovono così, non importa che le ricordiamo oppure no.
Se ne stanno da qualche parte, appena cullate dai nostri passi, mentre andiamo,
parliamo, decidiamo, lavoriamo. Sono solo sogni: inutili per la nostra vita
materiale, indispensabili per quella psichica. Sono fantasia e pensiero, fonte
meravigliosa da cui attingere, ma invendibili, inspendibili,
irragionevoli.
Pur non potendo essere riprodotti tali e quali
per iscritto, poiché perderebbero profondità e smetterebbero di
essere pensiero libero e irrazionale, qualche volta si incontrano
romanzi che sembrano attingere direttamente alla sostanza non-sostanza di cui
sono fatte queste immagini, che sanno parlare il loro stesso linguaggio. Forse
è quando il racconto si intreccia con la poesia o
quando vengono dimenticati i fatti razionali e la realtà quotidiana per
raccontare un’altra realtà, più interiore.
Allora questi romanzi parlano di esseri umani e di rapporti umani. Allora, come i sogni,
le immagini-parole scritte sembrano condurci in una dimensione essenziale,
dritto dritto al senso della vita umana.
Si può scrivere un romanzo di 640 pagine (!) sulle immagini. E metterci
dentro la storia di una importante “avventuriera della
finanza” che si lascia alle spalle la propria identità sociale per affrontare
un viaggio da sola, con un piccolo zaino di cose inutili sulle spalle. Partendo
da una non meglio identificata città porto fluviale
dell’Europa nord-occidentale, appena squassata da un uragano che ha divelto
alberi secolari e radicate convenzioni, la donna muove alla volta della Spagna.
Deve attraversare la Sierra de Gredos e incontrare mille
sconosciuti e mille esistenze, per poi arrivare nella Mancha di don Chisciotte e
trovarsi al cospetto di colui al quale ha affidato la stesura della propria
storia: non una biografia di nomi e di date e di fatti, non il racconto di una
folgorante carriera; bensì la storia di una vita… mentale, fatta di affetti e
di separazioni.
Le immagini
perdute di Peter Handke (Garzanti, ottobre 2004 – trad. Claudio Groff) dice queste cose e parla
una lingua… strana. Dice di una donna che per scoprire la propria dimensione
interna, per comprendere la distruttività di un fratello e rintracciare i
perché della scomparsa della figlia, si affida a una
miriade di immagini. Per farlo - felice è l’intuizione dello scrittore
austriaco – la ex “banchiera” deve accantonare innanzitutto
il suo ruolo sociale e soltanto così potrà spingersi fino alla profondità
radicale del proprio essere. Certo, il rischio è grandissimo: in questa sorta
di regressione volontaria è sempre dietro l’angolo “la perdita dell’immagine”
(questo sarebbe in effetti il titolo in tedesco scelto
da Handke), la perdita cioè della fantasia interna,
di una vitalità-creatività che è motore primario della vita umana… Quando
questa fantasia viene a mancare, le stesse immagini, quelle colte col sogno del
sonno e con gli occhi della veglia, rischiano di rimanere soltanto figure. E le parole-immagini soltanto suoni indistinti. E le persone-immagini soltanto esseri di una stessa specie,
indifferenziati e “normali”.
Di fronte a un tale pericolo l’unica risorsa - sembra
voler proporre Handke con il suo imponente racconto -
è il desiderio, pur temuto dagli altri, pur negato e troppo spesso frainteso.
«Sì, desiderio… desiderio che si risvegliava al cospetto di una goccia di
rugiada nel sole che, a differenza delle miriadi di gocce vitree, trasparenti, biancoscintillanti, spiccava dallo spazio rugiadoso come
una palla di bronzo, non luccicante e scintillante, ma luminosa, splendente,
sfavillante; non un modesto puntino di luce, ma una sfera, una bombatura che
invitava alla scoperta; non di un pianeta sconosciuto, ma di quello ben noto,
della vecchia terra qui, che ti sfidava a una
ininterrotta scoperta quotidiana che non portava a niente, a nessuna
utilizzazione, se non a un tenere-aperto… scoprire
nel senso di tenere-aperto?»
Immagini e desiderio, comincia a dipanarsi
questo gomitolo di filo rosso. Viene voglia di legare il desiderio alle
immagini inutili, che siano sogno o poesia o un quadro
non figurativo; come se la creatività del fare senza utile potesse rappresentare
un indizio di sanità mentale, un ricordo antico, conservato o ritrovato…
Trovo qualcosa del genere, anche se non è
spiegato, ne L’Ospite e l’Arlecchina
(Ibiskos, ottobre 2004) di Annio Gioacchino Stasi. Romanzo poetico e complesso.
Quasi gioco letterario, serissimo in verità. Perché anche qui le tematiche suscitate dalle immagini scritte e da quelle
propriamente rappresentate (all’interno e sulla copertina del libro, dalla
pittrice Mery Tortolini), portano tutte a
caratteristiche specifiche della realtà mentale umana: il desiderio, appunto,
il linguaggio e la storia di una ricerca sulla psiche, sull’inconscio. Stasi
conduce il lettore nelle stanze di una grande
costruzione, ma allo stesso tempo lo lascia libero di cogliere ciò che più gli
piace: ancora immagini che non sono figure, una storia d’amore, la ribellione
agli schemi, un rifiuto nettissimo della banalità. L’Ospite e l’Arlecchina si incontrano e
incontreranno altri, raccontano e si raccontano. Con un
linguaggio lirico e metaforico cui il lettore può soltanto lasciarsi andare:
unica regola che non regola niente… Immergersi in questo fiume variopinto,
irrazionale e leggere le acrobazie di un funambolo o il riposo di un guerriero;
la scoperta di un medico e la bellezza di una donna; la notte che reca una voce
e il giorno che tenta di impedirla. Lasciarsi andare per “sentire”,
unica regola…
«Raccontami una storia tu che sei uscito dai muri di casa, raccontami una
storia. Gli uomini che suonano per strada non hanno casa che li protegga e pensano sempre che il sole non li scotterà mai.
Gli uomini che suonano per strada hanno le mani leggere di canzoni d’amore e
ridono delle sventure. Raccontami una storia tu che sei uscito dalle mura di
casa, raccontami una storia che duri tutto il giorno e di notte attendi il
silenzio dei miei occhi. Raccontami la storia degli uomini che chiusero in casa
le donne e persero per sempre la voce… raccontami la storia degli uomini che
per ritrovare la voce dovettero liberare le donne… raccontami la storia di una
vita possibile»
Ecco due libri, allora, che non servono a niente. Tanto che me li tengo ancora un po’ sul comodino,
anche se ho finito di leggerli. Ogni tanto penso che, mentre dormo,
dalle pagine chiuse possa scivolare fuori un’immagine e venire a trovarmi in sogno.
Magari il giorno dopo modellerò l’argilla o farò un disegno o sorriderò senza
un motivo apparente. Oppure bacerò una donna appena alzata dal letto… Ma forse,
quella volta, sarà perché sul comodino, sopra i libri, a portata di occhi, lei mi avrà lasciato una poesia inutile e
bellissima. Come questa:
Proprietà
Io non posseggo fiumi
né monti
né laghi
né pianure
Ma ho posseduto un
figlio
una manciata d’anni
e alcuni uomini
per notti intere
Mi appartengono forse
le mie poesie seppur
qua e là rubate a chi
di bellezza si nutre
ed elargisce
E un certo mare
interno
che mi costa la vita
e vita mi regala
(Antonella Pozzi)
© Paolo Izzo
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