La scomparsa del desiderio

(da Quaderni Radicali n. 73/75 – aprile 2001)

 

È da un po’ di tempo che un dilemma mi fa perdere il sonno. Sto diventando moralista oppure ottusamente oggettivo? Tutte e due le ipotesi mi spaventano… Perché il moralismo può far smarrire la spontaneità e l’oggettività stolta può distruggere la fantasia. Eppure, la volontà di contrastare il fenomeno dilagante che sto per illustrare, sembrerebbe dover rientrare in uno dei suddetti atteggiamenti.

Nutro la speranza che, attraverso l’ennesima meditazione tra i libri, questi mi offrano una terza ipotesi, meno millenaristica o razionale.

 

Il mio limite; il mulino a vento apparentemente placido, innocuo, indifferente contro cui sento di dovere pronunciarmi con rabbia è la confusione che si fa sul desiderio in generale.

Qualche tempo fa, con una lettera rimasta senza risposta, me la presi con il supplemento femminile de “la Repubblica” (3/10/2000) per l’acriticità con cui una donna (!) trattava l’ideazione di perfezionate bambole gonfiabili. Come se non bastasse, l’articolo rientrava, secondo il giornale, nella categoria eros!!

Allora scrissi, tra l’altro «[…] A che punto si arriverà per negare la donna ed il suo rapporto con l’uomo? Un tempo la donna parlava di meno, era più... comoda. Poi ha cominciato a dire la sua (o ci prova) ed allora si è andati in cerca di un surrogato muto nella vasta gamma delle perversioni: l'immagine bidimensionale del giornaletto hard, il ricorso al rapporto uni-direzionale con il video o con internet, bambine sempre più piccole e adesso degli zombie di gomma da tenere in salotto! […] Queste cose, a chi scrive su di un giornale femminile e si trova a dover documentare un fenomeno così aberrante, non vengono in mente? Non basta la pornografia o la legittimazione sempre più smaccata della stessa? Non basta il voyeurismo telematico, con telecamere puntate fin dentro all'ultimo tratto dell'intestino retto? Non basta la pedofilia, morbosamente ritratta persino dal telegiornale? Evidentemente no: ci mancava questa sorta di necrofilia legalizzata […]».

Forse ero nervoso. O nervosamente moralista.

Qualche giorno fa, sempre su “la Repubblica” (31/12/2000), Umberto Eco confezionava l’unico Illuminismo a cui avrebbe aderito con gioia.

Eco ha scritto, tra l’altro (le sottolineature sono mie): «[…] Adamo ha bisogno almeno di Eva, non tanto per soddisfare il desiderio sessuale (per questo sarebbe bastata una capra) ma per procreare, e dunque moltiplicarsi […] l’illuminista sa che l’uomo ha cinque bisogni fondamentali: il nutrimento, il sonno, l’affetto (che comprende il sesso, ma anche il bisogno di legarsi almeno a un animale domestico), il giocare (ovvero fare qualcosa per il puro piacere di farla), e il chiedersi perché. I primi quattro bisogni sono comuni anche agli animali, il quinto è tipicamente umano e richiede l’esercizio del linguaggio […]».

Forse era ironico. O ironicamente zoofilo.

Personalmente, nervoso o ironico, io non mi ritrovo in questa società latentemente omosessuale di masturbazione istituzionalizzata, di assenza di rapporto e di femminismo in riflusso.

E penso che giovi ad un sistema di orwelliana memoria se non, più realisticamente, alla società clericale in cui stiamo sprofondando.

 

Comincerei con Nathan Englander, 29 anni, un ragazzo. Che, a giudicare dal suo volume di racconti Per alleviare insopportabili impulsi (Einaudi), di come vadano le relazioni tra uomini e donne (e non tra uomini e animali) ne sa qualcosa in più di certi dotti e pomposi signori. Con la proverbiale ironia degli scrittori israeliani, Englander ci offre una panoramica dei problemi, dei tic, delle nevrosi e dei rituali ossessivi dei suoi compatrioti (ovunque essi si trovino, geograficamente). I paradossi sfumano nel drammatico, il divertimento nasconde molto spesso una secca amarezza. Alla fine di ogni racconto abbiamo riso e pianto. Abbiamo riflettuto su quanto, nonostante le etnie e le culture siano infinite, le personalità e gli stati d’animo degli esseri umani si somiglino. Ma soprattutto conosciamo un’altra sfaccettatura del popolo ebraico, perché ci è stata trasferita in maniera precisa. Penso, per esempio, al racconto intitolato “La parrucca” dove, in poche pagine, l’Autore ci illustra il rapporto tra un uomo e una donna hassid (gli ortodossi dell’ebraismo). Sembra di rivivere il film Kadosh di Amos Gitai; con una leggerezza ed una velocità estranee a Gitai, ma con il medesimo stridio tra la modernità dichiarata del nostro terzo millennio e i retaggi violenti e maschilisti di una cultura arcaica.

 

«Si gira su un fianco. Si mette una mano fra le cosce e la schiaccia con l’altra, stringe le gambe e si culla. Esclude dai suoi pensieri Shlomi, la rabbia, la gonna ricacciata nell’armadio, concentrandosi sul garzone del verduraio e i modelli che facevano i tassisti e delle dita che le carezzano i capelli. È sola coi suoi pensieri e si culla. Shlomi accende la luce sul comodino dalla sua parte. Le mette una mano sulla spalla, e la scuote, accelerando il dondolio e guastando il ritmo. “Ruchie, mi avevi promesso…”. “Ma quando mai?”. “In ogni caso, questa cosa deve finire. È un abominio”. “Dove sta scritto? Se lo fanno gli uomini, sì. Ma se lo fanno le donne, che sono senza semi, come l’uva del supermercato, non c’è niente di male. Vallo a chiedere al tuo rebbe. Ti dirà la stessa cosa. Digli cosa  fa tua moglie e domandagli se è lecito”. “Domandare al rabbino? Dio ne guardi!”. “Dovevi nascere cristiano, - dice lei, - tanto sei bravo a fuggire i piaceri terreni”. “Dio ne guardi! Bada come parli!”. Lei si gira e vede che si è tappato le orecchie con le mani, come un bambino. Allora affonda le mani ancora più giù nell’inguine. Tutta la passione di Shlomi, lei pensa, è intrappolata tra quelle due orecchie. E si culla, si culla, si culla, fino a che non si addormenta».

 

Ancora non ci siamo. La nebbia che avvolge il nostro tema stenta a dissolversi. Proviamo a far dire qualcosa sul desiderio direttamente ad una donna! Sarà impresa ardua anche questa, perché sembra che numerose scrittrici, una volta conquistata la pubblicazione dei loro testi (forse, mi scappa di dire, proprio per conquistarla!) si debbano per forza mettere a raccontare di uomini che costantemente deludono il desiderio femminile, di saffiche performances come unico rifugio dall’aggressione del maschio, di eroine che ammazzano a tutto spiano per poi finire suicide con una bella macchina decappottabile da un dirupo, tenendosi per mano… Oppure scrivono magnificamente d’altro, le donne, che non sia il desiderio, che non sia l’amore. Per stavolta non ci interessa.

Per lettera è un romanzo epistolare, pubblicato nel 1999 da Mondadori. È il primo della scrittrice danese Iselin C. Hermann. L’idea, uno scambio di lettere, a distanza, tra due perfetti sconosciuti (che troppo rimanda alle odierne, anonime chat-line) ed il finale davvero inaspettato non confortano le nostre infantili speranze su rapporti “sani” tra uomo e donna. Semmai le deludono. Tuttavia, di questo agile volume, mi piace molto il legame che l’Autrice instaura tra desiderio e arte, tra desiderio e scrittura, tra desiderio mentale e desiderio fisico.

In un crescendo di emozioni, fantasie erotiche, dichiarazioni d’amore, la protagonista compone con il suo interlocutore, un pittore parigino dalle cui opere è rimasta folgorata, una bella sinfonia d’amore. Destinata, come quasi sempre accade alle storie d’amore (e mi chiedo perché?!), a finire in tragedia…

 

«Il silenzio è solido. Lo incido con una fiamma ossidrica cercando di varcarlo. Il silenzio tra noi è il tempo che passa. Non ho tue notizie da più di quattro settimane. Il silenzio mi rende inquieta. La mia gabbia toracica si apre verso di te, e fa male. Come tante piccole fiamme – lingue di diavoli – la nostalgia avvolge la mia pelle e cerca di afferrarti. Fa male. Sono fuori di me. Non avevo mai capito questa espressione – mai prima d’ora. Tutta l’energia, la forza, i miei pensieri sono fuori di me. L’attenzione si rivolge lontano, ti cerca. […] E penso alle parole desiderio e nostalgia. Non è forse così? Si sente nostalgia di una persona o di una cosa conosciuta che viene improvvisamente a mancare, mentre si prova desiderio per ciò che non si conosce. La nostalgia è legata al possesso, mentre il desiderio è aperto, non ha limiti precisi. Forse il desiderio si muove continuamente, come l’arcobaleno. Io ti desidero».

 

Allora non ci rimane che concludere con una sceneggiatura! È un vezzo intrapreso già la scorsa volta, ma ha radici e motivazioni autentiche. Un film tratto da un romanzo ha già un fascino particolare; una sceneggiatura è addirittura la parola scritta che viene pensata per il cinema (o per il teatro). Il segno che, come un seme piantato nella carta, fiorisce in immagine: una bellezza che ogni lettore prova quando, scorrendo le parole, si figura scenari, personaggi, climi, espressioni…

 Nuove Edizioni Romane, a distanza di dieci anni dall’uscita del film (1989), ha pubblicato la sceneggiatura de La condanna, scritta dal regista Marco Bellocchio e dallo psichiatra Massimo Fagioli. Senza apparente motivo. E non si dovrebbe leggere, in questa avventurosa iniziativa editoriale, lo stesso intento che ha mosso le mie modeste pagine: cioè una battaglia contro la confusione che si fa sul desiderio?

Magari verrei smentito dall’editrice stessa (guarda caso, una donna!), ma è questa la sensazione che mi ha accompagnato scorrendo le pagine di Fagioli e Bellocchio.

Sono passati dieci anni… Un film dove il desiderio è protagonista, attraverso la storia dell’architetto che rimane chiuso nel museo con la giovane Sandra, nascondendole di possedere le chiavi per uscire. Violentandola, in apparenza. E difendendosi da solo al processo per stupro che ne consegue. Una storia, un film che fece scalpore, così come faceva rabbia quel personaggio che parlava di immagine femminile e di arte in un’aula di tribunale. Nessuna vera e propria violenza, nessuna folle aggressione, ma nemmeno bontà, pietà oppure “normalità” di rapporto. Un’entità sconosciuta, temibile aveva attratto e legato un uomo e una donna: il desiderio.

 

«Sandra: Ha una potenza di carattere che costringe alla sessualità, anche se una donna non vuole. Senza dire molte cose o semplicemente parlando di arte, muove realtà profonde che ognuno ha il diritto di tenere nascoste… Ed ha adoperato anche la sua forza fisica anche se non mi ha fatto del male. Sapeva che non potevo difendermi perché non potevo fuggire, non potevo scegliere coscientemente e lucidamente, aveva un potere, le chiavi, che non ha condiviso con me. Mi ha costretto, anche se non con la violenza fisica, a rapporti sessuali che io non avevo deciso di avere. Mi ha ferito irridendo le mie difficoltà sessuali. Non è stato buono in una assurda e violenta ricerca di una bellezza impossibile…

[…]

Giovanni: Che devo fare?

Architetto: Io non ho mai fatto nulla, si tratta di essere in un certo modo…

Giovanni: … “Essere in un certo modo”, che significa?… e in che modo?…

Architetto: Significa essere l’opposto delle donne, mai essere come loro… diversità e solitudine. Solitudine interna e… qualche volta materiale… Hanno un segreto, che non ti danno mai spontaneamente, bisogna costringerle, però poi sono felici di essere state “violentate”… e non te lo riconoscono mai, anzi ti denunciano e forse hanno ragione, perché hanno toccato qualcosa che non troveranno mai più nella vita, nella vita si trova appunto il volersi bene e gli esseri umani preferiscono volersi bene… rispettarsi, proteggersi, compatirsi, amarsi così... piuttosto che cercare quell’“impossibile bellezza” di cui ha parlato Sandra nella deposizione, che poi ha voluto rinnegare… per averla conosciuta…»

 

Ecco fatto. Altre sei pagine sconclusionate in cui si parla anche di libri

Ma forse ho trovato l’auspicata terza ipotesi: non sono d’accordo. Né con il concetto astratto di “desiderio” esternato da Eco, né con gli uomini che sbavano sui calendari delle modelle (quando va bene), né con le donne che si prestano al gioco. E neppure con la Chiesa, che chiude un occhio su qualunque perversione, tranne sul rapporto sano tra uomo e donna.

La “terza ipotesi” mi fa essere d’accordo solo con chi pensa che occorra superare la paura del desiderio, di quello vero! Non della bramosia travestita, della gastronomica visione del sesso, del possesso narcisistico e  annullante.

E per il desiderio vero, l’unico possibile, tra un uomo e una donna, mettere in gioco tutto, lasciarsi andare, saper perdere la testa.

È un lavoro difficile, essendo necessarie tante, forse troppe doti per non soccombere ad una simile prospettiva: identità, vitalità, creatività, sanità mentale… Per chi non le possiede c’è davvero il rischio di andare incontro alla “follia”!

 

 

© Paolo Izzo

 

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