I vecchi e le crociate

(da Quaderni Radicali n. 70/72 – giugno 2000)

 

Intanto ci è tornato un rigurgito cattivo, ecco il risultato.

È passato del tempo, abbiamo resistito, ci siamo recati nei porti della quiete e del sano rifiuto, per stare almeno lontani dal chiasso; ci siamo isolati perché non ci piaceva l’ambiente, abbiamo preferito essere odiati per essere geniali o essere poveri pur di conservare le nostre risorse interiori... ma si vede che ancora non era sufficiente.

Sarebbero capaci di scovarci pure in culo al mondo, figurarsi se per sperderci abbiamo scelto i posti più semplici e forse più innocui (casa nostra o una libreria del centro o le rovine di largo di Torre Argentina): manco fossimo andati in Tibet o in India a cercare il Dalai Lama. Non ci siamo mossi di una virgola, in virtù di un’accanita coerenza, ma soltanto arroccati laddove ci avevano assediati, eppure sono venuti nuovamente a cercarci.

Quello che veramente li frega, forse, è di non percepire da parte nostra alcuna richiesta d’aiuto:uell non ci droghiamo, non siamo handicappati, ex fascisti o ex comunisti, ebrei o neri, non siamo ex terroristi, non siamo ex di niente, non viviamo da poveri, da zingari, da collaboratori di giustizia, non siamo in alcun modo emarginati dalla società che anzi, seppure con un ostinato silenzio, contiamo di migliorare. Dunque l’assistenzialismo, con noi, non attacca. E non attaccano la solidarietà, la bontà, l’impegno umanitario (i cui effetti devastanti hanno spesso i colori soavi dell’arcobaleno). Il millenarismo non ci spaventa perché non nutriamo sensi di colpa e la new age non ci stimola perché siamo alle prese con pensieri veramente nuovi o dichiaratamente antichi.

Allora, ci provocano con i mezzi più subdoli, ci fanno crollare miti o fanno dichiarazioni così assurde da passare generalmente... inosservate.

Eppure, ce ne stavamo buoni buoni a leggere, senza dare fastidio a nessuno. Per il nostro eremitaggio avevamo scelto, per cominciare, Le braci di Sándor Márai (Adelphi).

Forse siamo stati attratti perché lo scrittore ungherese è vissuto attraverso due guerre e altrettante paci fittizie, invasioni e domini stranieri; perché anche lui, come noi, ha conosciuto l’esilio volontario; perché si è trovato in mezzo a dittature di destra e di sinistra, parimenti odiate ed ha visto nascere e cadere monarchie, democrazie parlamentari, regimi totalitari; perché le sue opere furono amate, poi bandite...

Nonostante tutto, Márai non si illuse mai. E per questo rivolse il suo sguardo e l’eleganza della sua penna agli impulsi elementari: il desiderio, l’amicizia, la vendetta, l’attesa. I suoi libri, pur immersi nella storia e pervasi da tutti gli echi degli eventi, sono come sussurrati, densi ed allo stesso tempo leggeri.

Ma nemmeno il lettore si illuda! Un tumulto si agiterà inarrestabile nel cuore di chi scorre i propri occhi sulle sue parole. Le braci - è proprio il caso di dire - potrebbe essere la rappresentazione metaforica dell’opera intera di Màrai: quella luce arancione che arde sotto la cenere è una storia che cresce quasi in silenzio, senza musica se non un adagio soffuso, come se ci si trovasse divisi dal mondo, dietro una porta insonorizzata al di là della quale un chiasso insopportabile ha dimenticato il senso dei suoni.

Un vecchio generale, Henrik, attende per quarant’anni un segno dall’amico della giovinezza, il capitano Konrad. I due erano stati inseparabili fino a che la passione per una donna travolse le loro esistenze, dividendoli, allontanandoli irrimediabilmente. Con un segreto nel cuore, hanno vissuto entrambi nell’attesa di una finale chiarificazione, di un duello psicologico che a colpi di parole li renderà soltanto co-protagonisti di Krisztina, una donna favolosa, vero centro delle loro tensioni, del loro desiderio, di una inevitabile tragedia interiore. Non sopravvivendo alla feroce passione di Henrik e Konrad, Krisztina ha condannato i due uomini a brancolare nella solitudine, a rimuginare tutta la storia, ossessivamente, in un buio di tristezza, rischiarato soltanto dalle braci incandescenti dei loro ricordi.

 

«“Ormai non ci resta più molto da vivere” dice di punto in bianco il generale, come se tirasse le somme di una discussione svoltasi in silenzio. “Un anno o due, forse anche meno. Non ci resta più molto da vivere, perché sei tornato. Lo sai bene anche tu. Hai avuto tempo per riflettere su queste cose, ai Tropici, e poi nella tua casa nei dintorni di Londra. Quarantun anni sono un tempo molto lungo. Ci hai riflettuto bene, non è vero?... Ma poi sei tornato, perché non potevi fare diversamente. E io ti ho aspettato, perché nemmeno io potevo fare diversamente. E sapevamo entrambi che ci saremmo incontrati ancora una volta, e che poi sarebbe stata la fine. Della vita, e naturalmente di tutto ciò che ha dato un senso alle nostre vite e le ha mantenute in tensione fino a questo momento. Perché un segreto come quello che esiste tra te e me possiede una forza singolare. Una forza che brucia il tessuto della vita come una radiazione maligna, ma al tempo stesso dà calore alla vita e la mantiene in tensione. Ti costringe a vivere... L’uomo vive finché ha qualcosa da fare su questa terra”».

 

 

Abbiamo proseguito nella ricerca di eremiti, di solitari, di vecchi, per imparare come si fa a resistere. E ci siamo imbattuti nella figura di un altro vecchio reale. Nessun pentimento, nessuna illusione. È il protagonista dell’intenso libro di Tahar Ben Jelloun, Giorno di silenzio a Tangeri (Einaudi). Non si può dire che sia un bel personaggio, quest’uomo aspro, cinico e misantropo, tuttavia il racconto della sua vita e del crepuscolo della stessa ci mostrano qualcosa di estremamente vero, in bilico tra saggezza e ingenuità, tra sentimento e orgoglio.

Una voce narrante lo racconta con benevolenza, interrotta di tanto in tanto da lui in persona: a sentirlo, nelle sue perenni lamentazioni, nessuno gli vuole bene, tutti lo hanno tradito o hanno provato a fregarlo... Una sfilza di rancori inossidabili affiora dalla rassegna dei suoi ricordi: persino la moglie, silenziosa e paziente, altrettanto vecchia, che lo accudisce e lo sopporta come può, viene bistrattata e sferzata dai malumori di un uomo che si avvia verso la morte. Giorno per giorno, senza paura, senza andare a caccia di indulgenze, di perdono, di estreme unzioni. Burbero, ma coerente. Arcigno, ma libero.

 

«Gli oggetti sono immutabili. È di là che viene la loro cattiveria. Se ne stanno là, nella loro aggressività pacifica, per sempre. Gli sopravviveranno. Quella tavola spessa non teme né il vento né il freddo, anche quando è attaccata dall’umidità non dà alcun segno di debolezza. Quel vecchio apparecchio radio, anche se guasto, resterà sempre al suo posto. Quell’orologio, riparato più di una volta, segnerà fino alla fine del mondo le dieci e ventidue. È eterno. Il tempo si accanisce contro di lui, non sugli oggetti. [...] Parlare da solo? Non sarebbe l’inizio della follia? Parlare alle cose? Non è segno di decadimento? Lui non è né pazzo, né rimbecillito. È vecchio. Ma la vecchiaia non esiste. Sa quel che dice e può affermarlo. La vecchiaia è un errore, un malinteso tra il corpo e lo spirito, tra il corpo e il tempo. È un tradimento del tempo, un brutto colpo preparato poco per volta dall’inavvertenza degli uni, la violenza degli altri, dall’amnesia di noi stessi, e dalla passione per le proprie radici e la propria origine. [...] “Le tue preghiere non arriveranno fino al cielo... Sbattono contro il soffitto: d’altra parte è perché preghi troppo che il soffitto è screpolato. Guarda, le tue preghiere sono tutte lassù... Basta passare una mano di tinta per cancellarle!»

 

 

Qualcuno si chiederà, allora, come ci hanno provocato...

La risposta è: offrendoci esattamente il contrario di tutto quanto abbiamo raccontato finora.

Mentre noi eravamo intenti ad apprendere dai libri, i nostri nemici, subdolamente, ci hanno attaccati su di un altro fronte: il cinema.

David Lynch ci ha proposto Una storia vera, dove un vecchietto piuttosto antipatico percorre centinaia di miglia a bordo di una falciatrice per ricongiungersi al fratello con cui aveva litigato dieci anni prima e per riconciliarsi in questo modo con se stesso e con Dio (la cui benedizione arriva puntuale attraverso un prete). Durante il tragitto ha tutto il tempo di dispensare i propri consigli ad una serie di personaggi secondari che ritroveranno i valori importanti della fede, della famiglia, della solidarietà...

Poi ci si è messo P. T. Anderson con Magnolia, dove assistiamo alle peggiori perversioni e schiavitù dell’uomo, quelle di tutti i giorni: pedofilia, sfruttamento dei minori, droga, accaparramento, tradimento, emarginazione, incomunicabilità. Rimangono tutte impunite le prime, irrisolte le seconde. La pellicola è attraversata da un buon samaritano in forma di poliziotto che tenta di tamponare il disastro con le sue buone parabole, ma non finisce crocifisso sebbene compia un paio di miracoli. E la vicenda di una serie di squallidi personaggi culmina in un biblico diluvio di rane, a significare che lassù qualcuno non è d’accordo con quanto vede accadere...

Insomma, vecchi redenti e neo-crociati, come a dire non c’è scampo: dove ti giri ti giri trovi un pensiero religioso, e chi ci ricasca e chi cerca di somministrartelo: millenarismo e new age. Non fila tutto?

E in nome di che cosa? Per esempio, in nome della Chiesa (sempre più presenzialista: si pensi al concerto del 1° maggio!), che a sua volta chiede perdono per i propri misfatti di cui è sinceramente (millenaristicamente) pentita e parte, quasi allo stesso tempo, con una nuova Crociata: chi si ricorda, infatti, che essa ha invitato gli europei di razza bianca a fare più figli per evitare che ci troviamo sopraffatti da africani e arabi di razza colorata e di confessione musulmana? L’atrocità doveva commentarsi da sola, ma non è stato così (i nazisti stessi si saranno mangiati le mani al pensiero che Hitler sia stato troppo all’avanguardia per i tempi in cui è vissuto).

 

Ma qui si parla di libri. Infatti, ecco un altro libro, che però è un film. Ecco un’altra storia, che però è una sceneggiatura. Per concludere in bellezza. E far finta che brutte immagini non se ne siano viste, negli ultimi tempi.

Che poi Il settimo sigillo di Ingmar Bergman (Iperborea) è un bellissimo scritto, pieno di immagini che nemmeno la pellicola è riuscita a rendere. Uno scritto autonomo, che vive un’esistenza indipendente dalla realizzazione scenica. Nebbioso e profondo, come il mare che invoca...

La trama è nota: vi si narra il ritorno del cavaliere Antonius Block da una Crociata in Terra Santa. A fare le Crociate si può finire per trovare uno scopo, per dare un senso alla propria vita. Il Cavaliere non ne ha tratto né uno scopo né un senso, ma solo insoddisfazione, amarezza. Ha bisogno di un poco di tempo ancora, lo chiede alla Morte che già lo bracca e lo ottiene sfidando l’inquietante figura ad una partita di scacchi. Un gruppo di personaggi ignari, ignoranti, ingenui fa da splendida cornice alla tragedia di un uomo che conta i secondi che gli mancano alla fine muovendo pezzi su di una scacchiera. In questa inesorabile lentezza, Antonius Block troverà il modo di compiere un’azione che gli restituisca vitalità poco prima di perdere per sempre la vita: salverà una coppia di innamorati, felici ed il loro bambino dalla falce della Morte. La Morte, inevitabile, che in fondo è pur sempre meno accanita di quei monaci impietosi, capaci di vedere il diavolo in una bambina di nome Tyan e di mandarla al rogo come “strega”...

 

«JÖNS: Che cosa vede? Me lo sai dire?

CAVALIERE (scuotendo la testa): Non soffre più.

JÖNS: Non hai risposto alla mia domanda. Chi veglia su quella bambina? Gli angeli, Dio, il diavolo, o soltanto il vuoto? Il vuoto, signore!

CAVALIERE: Non può essere così.

JÖNS: Guarda i suoi occhi, signore. La sua povera coscienza sta facendo una scoperta: il Vuoto sotto la luna.

CAVALIERE: No.

JÖNS: Stiamo qui impotenti, con le braccia inerti, perché vediamo quel che vede lei e il nostro orrore è uguale al suo. (Esplodendo) Quella bambina. Non reggo più, non reggo più...

 

La voce gli si strozza in gola; se ne va bruscamente. Il Cavaliere monta a cavallo. I viaggiatori si allontanano dal crocevia. Tyan chiude finalmente gli occhi».

 

 

Invecchieremo così, come Jöns. Scettici e incazzati. O come l’anziano burbero di Tahar Ben Jelloun, soli e incazzati. O come Henrik, il generale di Márai, vendicativi e incazzati.

Una cosa è sicura: non ci pentiremo, non chiederemo sconti, non ripiegheremo su aldilà di comodo e non andremo a far parte dell’energia dell’universo.

Con noi finirà il nostro pensiero.

Dopo, il ricordo di noi sopravvivrà come una nostra qualsiasi imperfezione.

 

 

© Paolo Izzo

 

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