Il dinamico piacere di leggere

(da Quaderni Radicali n. 42/43 – gennaio 1995)

 

È nell’aria: i lettori sono stanchi delle recensioni tra­dizionali - e forse non le hanno nemmeno mai avvicinate. Sono stanchi di quelle parole buone per le post-fazioni, di quei vortici di indicazioni su come interpretare gli autori, i romanzi, i racconti. Siamo arcistufi, noi che leggiamo - tanto o poco, non importa -, che per via della “critica letteraria” ci si dica sempre come leggere e perché preferire una lettura ad un’altra. Vorremmo soltanto sapere che un romanzo è in circolazione, che qualcuno l’ha scritto che qualcuno l’ha letto - meglio se un amico - e ce ne vuole parlare, bene o male. Qualche cosa a proposito di questa nostra inclinazione ce la racconta Daniel Pennac nel suo Come un romanzo, attraverso i suoi diritti del lettore, attraverso i suoi sacrosanti consigli ai professori di scuola. È voglia di leggere, non di farsi spiegare un libro.

Per noi lettori d’assalto, un libro è e rimane un’avven­tura; un viaggio solitario. Immaginate di essere a Parigi, di voler girovagare senza meta in una delle più belle città d’Europa, ma di avere sempre alle calcagna una guida turistica che vi spieghi persino i minimi particolari dei bistrot in cui vi fermate per ristorarvi; sarebbe una bella scocciatura!

Lo stesso per un libro. La nostra - di quelli a cui mi riferisco - vuole essere lettura in movimento. Come su un treno: pagine che scorrono come immagini di un paesag­gio, parole che si susseguono come casolari di campagna o greggi transumanti.

È nell’aria: qualcuno l’ha capito. Alessandro Baricco, non a caso uno scrittore, ha ideato «Pickwick», quella stazioncina di libri “in movimento” trasmessa da Raitre e di cui speriamo sia pronta una nuova “vagonata”. Intanto plagiamo l’idea, con la rubrica di cui state leggendo alcuni vaneggiamenti; e pensiamo a quanto dice Milan Kundera da qualche parte: che si leggono libri solo per raccontarli a chi non li ha letti.

 

Iniziamo con Castelli di rabbia (Bompiani), proprio di Baricco. Non diremo che cosa significa quel romanzo; diremo che ci è piaciuto, semplicemente. Due bellissime storie, più di due storie, si intrecciano dando vita ad un vero spettacolo di immagina­zione e di letteratura. Una coppia di coniugi con i loro segreti; un inventore che ha un bambino per amico e tanti sogni e tante note nella testa; una locomotiva (!) che non parte mai, persone che partono e che tornano, piccole e grandi disgrazie. E vuoti incolmabili, anche tangibili come certi spazi lasciati bianchi tra le righe del romanzo: come se il viaggiatore di quel treno ogni tanto avesse chiuso gli occhi assentandosi dal paesaggio, assentandosi dalla Storia.

 

«Sui treni, per salvarsi, leggevano... sempre, e per tutti, altro non è mai, lèggere, che fissare un punto per non essere se­dotti, e rovinati, dall’incontrollabile strisciare via del mondo. Non si leggerebbe, nulla, se non fosse per paura. O per ri­mandare la tentazione di un rovinoso desiderio a cui, si sa, non si saprà resistere... Un libro aperto è sempre la certifica­zione della presenza di un vile... le parole che a una ad una stringono il fragore del mondo in un imbuto opaco fino a farlo colare in formine di vetro che chiamano libri - la più raffinata delle ritirate, questa è la verità. Una sporcheria. Però: dolcissima».

 

 

Anche Philip Roth viaggia, nel suo Operazione Shy­lock (Mondadori). È un libro sugli ebrei, contro gli ebrei, a favore degli ebrei: ogni punto di vista ha un suo partigiano. Il bizzarro, comico dramma di Philip Roth stesso, raggiunto dalla notizia che un suo sosia si aggira per Gerusalemme spacciandosi per lui, usando il suo nome e la sua fama. Una miriade di personaggi si para dinanzi ad uno scrittore, quello originale, incredulo, infa­stidito ma pure incuriosito. Un progetto di “diasporismo”, arabi, palestinesi, vecchi e ricchi ebrei, persino il fantasma di quel Leon Klinghoffer che fu ucciso durante il sequestro della nave “Achille Lauro”, che rivive attraverso i propri diari di viaggio (sempre viaggio, movimento!). Insomma, quello di Roth, è un voluminoso delirio-confessione au­tenticamente falso, di un abile Roth, che con buone proba­bilità non va a parare da nessuna parte, né è quello il suo intento. Non prende mai partito, Roth: semmai lo fanno i personaggi che egli incontra; semmai.

 

«Philip Roth, dov’era Dio tra il 1939 e il 1945? Io sono certo che fu presente alla Creazione. Sono certo che si trovò con Mosè sul monte Sinai. Il mio problema è questo: dov’era tra il 1939 e il 1945? È stato un venir meno al proprio dovere per il quale Lui, Lui in particolar modo, non potrà mai essere perdonato»;

«Tutti questi scritti di non-scrittori, pensavo, tutti questi diari, memorie e biglietti scritti da mani maldestre senza un minimo di bravura, impiegando un mille­simo delle risorse che offre una lingua scritta... eppure, non per questo la testimonianza che rappresentano è meno per­suasiva, anzi è molto più scottante proprio perché la sua forza espressiva è così schietta e primitiva».

 

 

Eccolo, Milan Kundera, con il suo La vita è altrove (Adelphi) - per chi non l’avesse letto, è consigliabile. La storia di un poeta, poeta dalla nascita, per volere di una mamma romantica e sempre in preda all’emozione. La vita lirica, la vita artistica, la vita e basta. Tutto mescolato come in un sogno: Jaromil, il poeta, de­terminato e passionale, creatore e vittima degli equivoci; Xaver, l’alter-ego che sogna e vive soltanto se dorme; la mamma, sempre divisa tra la propria realtà e quella di un figlio amatissimo che - malgrado tutto - è destinato a crescere, ad abbandonarla. “Altrove” vorrebbe essere cia­scuno dei personaggi di Kundera; tutti, al contrario, restano ancorati alla propria esistenza, che piaccia o no.

 

«Così come la vostra vita è determinata dal lavoro e dal matrimonio che vi siete scelti, il nostro romanzo è delimitato dalla prospettiva offerta dall’osservatorio dal quale si vedono solo Jaromil e sua madre, mentre gli altri personaggi li pos­siamo scorgere solo quando compaiono in presenza dei due protagonisti. Abbiamo scelto questo osservatorio così come voi avete scelto il vostro destino, e si tratta di una scelta non meno irrimediabile. Ma ognuno rimpiange di non poter vivere altre vite oltre alla propria sola e unica esistenza... Il nostro romanzo è come voi. Anch’esso desidera essere altri romanzi, quelli che avrebbe potuto essere e non è stato».

 

 

Ancora su di un treno che cambia binario o sul teleco­mando, volando con la mano a premere tutti i pulsantini in uno zapping estenuante. Tre storie che partono da stazioni diverse per giungere ad una destinazione unica: Colombia, cartello di Medellin. Come tre canali di televisione che trasmettono spy-soap-opera e poi si riuniscono in un solo posto. È L’agente del diavolo di Murray Smith (Bompiani): una virile storia di spie, forse troppo compiaciuta di essere tale: agenti segretissimi, violenza anche gratuita, burocrazia terroristica, la guerra del Golfo e i capi dell’IRA. Tutti gli ingredienti per un mix televisivo o cinematografico (a patto che l’agente del diavolo lo inter­preti Harrison Ford). Sangue in abbondanza; forse troppo. Per fortuna, ma bisogna aspettare la fine del libro, una donna riporterà tutti alla presa di coscienza che le pulsioni e i desideri istintivi sono sempre in primo piano, anche quando tutto sembrava ben calcolato.

 

«L’italiano sorrise, rivelando due labbra tumefatte, mentre la calotta cranica gli si sollevava come se fosse un coperchio; i capelli gli si rizzarono sulla testa come per una folata di vento e l’occhio destro diventò di colpo una massa gelatinosa rosso scuro, mentre il crepitio secco di un Uzi rimbombava nelle orecchie di Pearson; con suo orrore, l’uomo assassinato barcollò in avanti mentre le ginocchia gli cedevano, e si aggrappò a lui, che d’istinto lo allontanò, raggelato dalla paura».

 

 

Ecco quattro libri, tanto per cominciare, che si possono leggere senza rimanerne delusi. Abbiamo accompagnato le loro micro-non-recensioni, con brevissimi spunti per individuarne lo stile o, se non altro, l’atmosfera in cui essi stessi sono calati: bonae literae, psico-quesiti, introspezio­ne e avventura; ce n’è per tutti i gusti. Qualcuno potrà accusarci di somigliare a dei mancati redattori di “risvolti di copertina”, per la nostra superficialità. Ma si badi, in­tanto: i libri di cui parliamo li abbiamo letti dalla prima all’ultima pagina. Semmai - possiamo concedere - è co­mune a chi scrive i “risvolti”, un subdolo tentativo: quello di invogliare a leggere.

 

 

© Paolo Izzo

 

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