Sindrome d’amore

Intervista a Gianna Sarra

 

Gianna Sarra è poetessa, scrittrice e saggista. La casa editrice Nutrimenti ha da poco pubblicato un suo saggio molto interessante, un volumetto rosso con un cuore nel mezzo e l’apparenza di un romanzo d’amore. Ma “La sindrome di Eloisa” (Nutrimenti, pp. 160 - € 14,00) è soprattutto un’attenta analisi dei rapporti epistolari, a partire da quelli di scrittrici e scrittori famosi. Abbiamo intervistato l’Autrice per farci raccontare di questo viaggio tra le parole, ricco di sorprese e di inattese rivelazioni, con un piacevole sapore di passato. 

 

Nella sua ricerca avrà scoperto i tanti segreti che le lettere d’amore nascondono…

«Prima di tutto ho scoperto con grande stupore che il linguaggio sentimentale, i circuiti cerebrali che sono addetti, diciamo, alla trasmissione di questo genere di rapporti, sono identici da millenni! Per cui una lettera di Ovidio ha lo stesso timbro di quella scritta da un poeta romantico dell’Ottocento, da un Byron per esempio, oppure da una M.me de Sévigné che scrive alla figlia, creando non poco scandalo… È sempre lo stesso linguaggio. Che poi è anche un linguaggio buffo: come ho sottolineato con una poesia di Pessoa, il senso del ridicolo viene totalmente a mancare… Perché sei fuori di te nel momento in cui sei in preda alla passione, alle emozioni, non ti rendi nemmeno conto se l’altro ti corrisponde o meno. E quindi il senso del ridicolo cade. Ma questo è il bello!»

 

Si va a finire nell’irrazionale… Lei dice “fuori di sé”, ma è anche molto “dentro di sé”, perché è proprio il viaggio nell’inconscio che è speciale.

«Certo. Si vanno a toccare delle corde profonde… L’eros è un fuoco. Scalda, fonde certi metalli, certe giunture che abbiamo irrigidite…»

 

Riproporre lettere scritte a mano quando adesso esistono le e-mail, i messaggi telefonici: mezzi molto più stringati, che vanno un po’ più dritti al punto. Questo è forse… il buffo?

«Infatti. Ma è stato studiato anche questo: la diversità del linguaggio. Pare che non sia morta del tutto la consuetudine di scrivere lettere, che anzi si stia quasi quasi riprendendo… Comunque sono due tipi di messaggi molto diversi quelli elettronici e quelli… artigianali, a mano.»

 

Si possono anche scrivere lettere e mandarle via e-mail: il problema è che si perde un po’ la scrittura, questa sequenza di segni tracciati a mano…

«Sì, una traccia. È il segno grafico del corpo. Un centro nervoso che si muove da certe zone del cervello, che passa alla mano, alle dita e da queste alla carta. Per questo ho voluto sottolineare anche gli aspetti della lettera come oggetto erotico: Joyce che diceva alla moglie “mettitela lì, la lettera”!, Oppure chi se la cuciva in tasca, sul cuore, nella tasca interna della giacca… Per non parlare degli ebrei, cui la Bibbia dice “tienimi legata al tuo cuore, tienimi nella tua mente”, che si cuciono dei rotoli di carta intorno ai polsi. Insomma c’è tutta una fisicità che attraverso l’elettronica si perde…»

 

C’è un altro aspetto che mi piace rilevare. Lei è anche poetessa: non trova che ci siano molte analogie tra lo scrivere lettere d’amore e lo scrivere poesie?

«Infatti! Questo saggio doveva essere di 300 pagine a stampa; ho dovuto fare un editing per renderlo più fruibile. Però nella versione originale c’era un capitolo dedicato a tutte le poesie-lettere, le poesie d’amore che derivano da lettere o che sono scritte in forma di lettere. Ce n’è una di Montale stupenda, “Notizie dall’Amiata”, “Ti scrivo da questa cellula di miele…”. Io stessa ho scritto poesie d’amore in forma di lettera. Oppure può capitare di scrivere una lettera e di accorgersi che sono scappati fuori dei versi: allora questi versi li ritagli e ne fai una poesia!»

 

«L’atto di scrivere una lettera è destinato al fallimento, a mancare cioè il suo bersaglio – che sarebbe poi l’incontro, nello stesso tempo e luogo, di due persone che si amano: un appuntamento in aria, come dei trapezisti». È un passaggio del suo libro che mi ha molto colpito. Ma cosa intendeva, davvero?

«Lo dicevo a proposito di Kafka, di quando scriveva a Milena che “i fantasmi si bevono i baci dalle lettere”… Come se i messaggi si perdessero in volo… Mi vengono in mente tutte quelle lettere scritte post-mortem: il vedovo di Sylvia Plath che le dedica “Lettere per il compleanno”; la Spaziani che scrive a Emily Dickinson, o Josif Brodskij che ha scritto una bellissima lettera a Orazio. Lettere ai morti, dunque. È perché la comunicazione non è soltanto inter-spaziale, ma anche inter-temporale. Tanto le lettere arrivano sempre! Nel senso che se tu provi un certo genere di emozioni nei confronti di un’altra persona che non ne è al corrente esplicitamente, queste onde arrivano, che siano positive o negative…»

 

Quindi è come se non ci si aspettasse niente in cambio di una lettera o di una poesia…

«È la cosa più egoista che esista! Nel senso che lo fai perché ti fa piacere. Quando sento dire “Eh, Leopardi, che vita infelice…”. Lui è stato il primo lettore dell’Infinito! Ci rendiamo conto? Cioè lui, nel momento in cui è stato ispirato a scrivere quei versi, se li è goduti per primo! Un conto è la biografia e un conto è la vita: è una gioia grandissima, quando ti arrivano questi versi, perché arrivano come un dono. Per la prosa e la saggistica è diverso, perché non c’è molta gratificazione narcisistica immediata: quando scrivi un saggio devi essere il più possibile oggettivo. Io ho messo molta cura e con tutto ciò mi è stato detto “sei un po’ femminista, perché sembra che qui solo gli uomini sono cattivi, le Eloise si ammalano!”. Insomma, un po’ mi è scappata la mano. Ad ogni modo la prosa è più laboriosa, più faticata; la saggistica addirittura sta in croce, perché ogni pagina, ogni virgola, ogni riferimento deve essere controllato.»

 

Lei comunque riesce a essere “lirica”. Si vede che viene dalla poesia. Il modo stesso in cui ripropone queste lettere, non interamente, prendendone brani e legandoli a un discorso…

«Questo secondo me è l’aspetto originale del libro, lei ha toccato il tasto giusto: è come una torta a spicchi, dico io; sono andata per temi, per argomenti… Per questo mi è stato detto che ho inventato, ma forse è meglio dire sottolineato, alcune categorie psicologiche: la sindrome di Eloisa, il complesso di Galatea, le piccole Arianne… Le racconto un episodio curioso: io ho un cugino psichiatra a Napoli, non psicologo, medico psichiatra. Si è comprato il libro e lo teneva sulla sua scrivania: arriva un paziente, vede il titolo e dice: “La sindrome di Eloisa… neh, dotto’, ma questa che è, ’n’ata malattia?”.»

 

A proposito di psichiatri, avrà sicuramente letto il Venerdì di Repubblica, circa un mese fa: parlavano del suo libro e delle sue rivelazioni sull’omosessualità di Freud, dicendo che lo psichiatra Massimo Fagioli ne avrebbe tratto una soddisfazione…

«Ma guardi, secondo me quella è una manipolazione, perché il libro parla di tante altre cose: quello su Freud è solo un paragrafo!»

 

Però l’hanno sfruttato per citare Fagioli. Che su Quaderni Radicali ha dato una bella risposta, non le pare?

«Sì. Intelligente e rispettosa. Perché lui in sostanza dice questo: “Io ho tutto il rispetto per il cittadino però se viene da me uno che dice sto male perché vivo male questa condizione di omosessualità io lo curo”. Mi piacerebbe incontrare Fagioli, prima o poi, visto che sono stata citata negli stessi articoli…»

 

In tutta questa storia a lei tocca la parte della “coraggiosa ricercatrice”…

«Io non ho inventato niente, le lettere di Freud sono pubblicate. Ad essere onesti, c’è un libro che si chiama “La mente estatica” (Adelphi, 1989), che raccoglie una serie di saggi di Elvio Fachinelli, il famoso psicanalista morto qualche anno fa. In uno di questi saggi, intitolato “Sorsi di punch al Lete”, c’è tutta la storia del rapporto tra Freud e Fliess! È tutto scritto lì… Che poi Freud era anche sposato, ha avuto dei figli. In un altro capitolo del mio libro parlo anche della sua relazione, anche questa tutta mentale, con Lou Salomé: quindi al massimo parlerei di bisessualità…»

 

Secondo lei, uno che non ha tanto chiara la propria identità sessuale può, non dico curare, ma almeno capire quella degli altri?

«Ma lei lo sa che quasi tutti gli psicologi o psicanalisti, gli psichiatri, almeno quelli che ho conosciuto io, c’hanno tutti grossissimi problemi? Dev’essere il mito del guaritore ferito, il centauro che avendo una freccia in corpo riusciva a capire le sofferenze degli altri…»

 

Un mito da sfatare, si potrebbe aggiungere.

 

(Zefiro, 17/03/04)© Paolo Izzo

 

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