Perché non ho festeggiato la donna

 

Quest’anno ho celebrato l’8 marzo a modo mio… Non ho voluto considerarlo un giorno di festa, semmai appunto una celebrazione. Ogni anno si ripropone questo conflitto interiore per chi, come me, festeggerebbe e festeggia le donne tutti i giorni dell’anno. Per tanti, invece, è questa l’occasione per regalare fiori e cioccolatini, per esaltare l’operato del gentil sesso nel mondo del lavoro, per enumerare le conquiste delle donne nel campo dei diritti civili... Bei gesti e belle parole, che cadono per terra come i pallini gialli delle mimose allo scoccare della mezzanotte: a festa finita, la donna è di nuovo l’essere inferiore e ‘pericoloso’ che da sempre è stata considerata, complice la società razionale con i suoi maestri sedicenti maschi.

Per celebrare la donna, dunque, ho scelto di leggere “Via dall’inferno” di Samira Bellil (Fazi Editore 2004, pp. 208 – Traduzione di Maria V. Caredda), il racconto autobiografico di una ragazza che è stata vittima di tre stupri in età adolescenziale. La storia di Samira si svolge quasi tutta nella periferia parigina, ma è bene dimenticare da subito la pittoresca ‘banlieue’ a modello Pennac, quella Belleville allegra e solidale dove le persone si aiutano tra loro e l’eventuale degrado è sinonimo dell’arte di arrangiarsi. Samira, algerina di terza generazione, ha vissuto per quindici anni come una dei tanti immigrati che popolano le cosiddette ‘cité’ - ovvero, come reciterebbe un dizionario, quegli “agglomerati di case popolari alle porte della metropoli”. ‘Ha vissuto’, ripeto, ma rileggendo mi sembra ci sia una incongruenza in queste parole, poiché non è di una vita che si parla in “Via dall’inferno” ma di un incubo dal quale poche donne hanno avuto la vitalità e il coraggio necessari per risvegliarsi.

A quattordici anni Samira subisce la prima violenza sessuale di gruppo: un capobanda di quartiere ha deciso che lei debba essere ‘punita’ per la sua sfrontatezza, per la sua vivacità e ne fa una preda da condividere con gli amici. Sembra la trama di una finzione cinematografica, ma quella che invece è un’agghiacciante realtà rappresenta soltanto l’inizio per l’adolescente «teppistella della cité», così come lei stessa si definisce nel libro. Il passaparola è veloce come quello per segnalare un negozio che ha buoni prezzi o la pasticceria che offre i dolci migliori e Samira viene presto additata come una prostituta, come una poco di buono, su cui ‘sfogarsi’ senza ritegno, soprattutto perché la ragazza non ha un fratello maggiore che possa proteggerla... Nemmeno i genitori indifferenti, assenti, le offrono aiuto, ma anzi fanno coro con la pletora di malelingue del quartiere. Braccata a stretto giro, la ragazza viene presto violentata una seconda volta. E a nulla le serve provare a scappare, né andare in vacanza: nella terra di origine, l’Algeria, dove la madre la porta per tentare un recupero della situazione, una terza tragica ‘giostra’ la vedrà di nuovo vittima.

Insomma, non c’è pace per questa ragazza, né nella democratica Europa, né in Algeria: la sua colpa è quella di essere donna e di voler vivere senza tenere gli occhi bassi, senza lasciare l’ultima parola agli uomini, senza rimanere in casa a cucire calzette… Arriveranno le denunce, i processi, le condanne a carico dei violentatori. Ma sembra che nulla riesca davvero a cancellare l’ombra che grava sulla reputazione di Samira, la cui rinascita è resa ancor più difficile perché deve scontrarsi con l’omertà, con la vigliaccheria, con l’isolamento di cui è vittima.

Ecco quindi una storia al femminile, raccontata in prima persona dalla giovane Samira, oggi trentenne attivista dei movimenti di difesa delle donne, la cui uscita dall’inferno è il frutto di un duro lavoro, di anni di psicoterapia e di questo sforzo definitivo rappresentato dal libro-denuncia che Fazi ha pubblicato nel mese di febbraio. Raccontare per denunciare, scrivere per vivere. L’incredulità del lettore avveduto si trasformerà come in un crescendo nella rabbia pura, anche se non molla mai la speranza, come al cinema, di leggere nei titoli di coda che i fatti narrati sono frutto dell’immaginazione; speranza negata dalla postfazione della Bellil, dove si legge: «…tutto quello che ho scritto in questo libro corrisponde scrupolosamente alla realtà. Non ho esagerato niente».

Per gli altri, complici impuniti di queste vicende, rimane soltanto quella frasetta terribile a fior di labbra, vera onta nei confronti delle donne, che suona vigliaccamente così:se l’è meritato’

Buon 8 marzo, Samira!

 

(Nuova Agenzia Radicale, 10/03/04)© Paolo Izzo

 

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