Il regista di matrimoni
Chi ha paura di Marco Bellocchio? Può cominciare con questa domanda la
forse centesima recensione del nuovo film del Maestro, nelle sale da venerdì
scorso. Perché Bellocchio è un vero fenomeno. Un tale
poliedrico, destabilizzante artista di razza che per “reggerlo” gli si deve
sempre contrapporre un altro cineasta: il Bertolucci
di “The dreamers” all’epoca di “Buongiorno notte”; il Moretti de “Il caimano” oggi. Poi si finge che sia il suo
opponente a vincere qualcosa e lui si prova a
relegarlo in secondo piano. Ma Bellocchio resta dentro, al centro della scena;
il pubblico cinefilo lo acclama e un certo senso di ansia
pervade colleghi, attori, critici, giurie, giornalisti. Perché
devono “spiegarsi” il fenomeno e vorrebbero collocarlo, schedarlo, imbrigliarlo.
Altrimenti fa paura. Un po’ come gli studenti e i
precari francesi che ultimamente hanno messo a soqquadro l’amministrazione
d’oltralpe… Sembra una casuale coincidenza, ma non lo è: proprio in Francia, al
festival di Cannes, Bellocchio va a finire nella sezione “Un certain regard”, quel… certo
sguardo/riguardo con cui si deve affrontare un movimento irrazionale senza
riuscire a capirlo. Il cinema è strano, sembra
Non si può raccontare, “Il regista di matrimoni”. Non servirebbe a niente.
Uno spettatore che vada al cinema dopo aver letto tutti i
contenuti del film, dopo che ciascun fatto sia stato analizzato per lui da
amici e recensori, vedrebbe un film diverso da quello che aveva immaginato.
Immaginare le immagini di Bellocchio è sempre più difficile, man mano che passa
il tempo, ma guardarle scorrere nel grande schermo è invece salutare e
affascinante. Di più. “Il regista di matrimoni” è forse il film più libero che Marco Bellocchio abbia girato: libero dalla Storia,
libero dai fantasmi, libero perfino da certe tortuosità caratteristiche del suo
autore (anche se un paio di processioni in meno avrebbero giovato a quest’ultima considerazione). E
nemmeno cogliere la miriade di citazioni (Buñuel, per
esempio) e autocitazioni (i fuochi d’artificio di
“Buongiorno notte”, le forbici di “Diavolo in corpo”) o esplorare i numerosi
piani di lettura, aiuterebbe alla comprensione della cifra artistica del film.
Possiamo soltanto scegliere. Scegliere alcune delle sequenze tra quelle che ci
hanno più colpito: Franco Elica (Castellitto lo interpreta esattamente come
fece l’Ernesto Picciafuoco de “L’ora di religione” e
lo stesso “Regista di matrimoni” parrebbe il seguito ideale di quella storia
del 2002) che impugna la telecamera al matrimonio della figlia e viene imitato come un vate dai fotografi, l’estasi mistica
di una delle aspiranti attrici al ruolo di Lucia Mondella
(una impeccabile Corinne Castelli), l’inseguimento
degli sposi sulla spiaggia con lei che finisce nuda, il principe di Gravina (un
inquietante e sornione Sami Frey)
che si esercita con la pistola all’arrivo di Elica, la scena nell’auto della
promessa sposa (bellissima mora la principessa triste Donatella Finocchiaro)… Ma sono, queste, soltanto una manciata delle
emozioni: gli attori sono bravi, interpreti e comparse, e il film bello
dall’inizio alla fine. Introspettivo e ironico al tempo stesso. Che sorride e commuove. Con le storie che si
intrecciano come sogni da svegli. Soprattutto il sogno
di un rapporto sano e libero tra una donna e un uomo…
E sveglia, però altrettanto visionaria, doveva
essere Francesca Calvelli, quando ha realizzato
l’originale montaggio o quando ha scelto (così gira voce), per un finale che è
quasi uno sberleffo e un’esplosione di vitalità, l’antica “Solo me ne vo per la
città”. Cantata però al femminile da Mariangela Melato.
Rapporto uomo donna, dunque. “Svezzato” e pieno di “immagini inconsce non
oniriche” (non può biasimarci, Bellocchio, se rubiamo anche noi qualcosa a
Massimo Fagioli!). Movimento irrazionale e trasformazione. Che
sia questo a far paura?
(Nuova Agenzia
Radicale, 24/04/06)©
Paolo Izzo
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