Una bestemmia che squarcia il silenzio

 

Quest’aria irrespirabile di occupazione o ri-occupazione del potere da parte di soggetti che fino a ieri producevano con successo scarpe, giornali o programmi televisivi, insieme al dilagare festoso di un qualunquismo indifferente e colpevole, portano a una conseguenza se possibile ancor più mefitica: addirittura il rianimarsi del potere secolare!

Sotto lo sguardo talvolta miope, qualche altra volta persino complice dell’opposizione di sinistra, la Chiesa appare oggi come interlocutore politico primario, in grado di porre veti, indicare direzioni, sanzionare, lanciare anatemi… Non accade un solo fatto di cronaca, un atto legislativo, la pubblicazione di un libro o l’uscita di un film, una manifestazione o uno sciopero senza che venga richiesto o semplicemente imposto il parere di questo cardinale, di quel monsignore o del papa in persona. Come se fosse sancito dalla legge sulla par condicio! Come se fossimo tornati al Medioevo o, senza andare troppo indietro nel tempo, agli anni ’70 quando le battaglie per i diritti civili erano dure e sanguinose proprio a causa dei pesanti altolà cattolici.

Con la peculiare differenza che oggi, diversamente da allora, non si può veramente parlare nemmeno di scontro dialettico. Perché non c’è scontro; perché il laicismo, comodo surrogato lessicale dell’ateismo, è debole e asservito. Preferisce abbassare la testa e andare a farsi… benedire, piuttosto che reagire ed essere coerente fino in fondo.

Come può funzionare una qualunque presa di posizione nei confronti del Vaticano se un minuto dopo averla espressa il “laico” si trova a braccetto con un fra’ Velletri qualunque per inaugurare una via cittadina, per visitare un omicida in carcere o per risposarsi in chiesa? Come può funzionare la professione di laicismo se in uno stato laico, per fare un esempio, non si riesce ad allestire una commissione di bioetica perché forse non si sa decidere quale porporato ne dovrà far parte?

Non sta a noi tentare di moralizzare la Chiesa per riportarla agli intenti spirituali originari, ma quanto meno vorremmo che si evidenziassero le forme di controllo e di ingerenza che la caratterizzano, evitando di cadere nei mille tranelli che essa dispone al solo scopo di acquistare potere. Insomma, noi irriducibili, anacronistici atei e anticlericali non sappiamo rassegnarci. Ci aspettiamo una risposta!

E poi, finalmente, qualcosa ci arriva dal cinema: il nuovo film di Marco Bellocchio, L’ora di religione, è una risposta! E suona come un’imprecazione ancora più forte di quella esplicita che vi è contenuta e di cui tanti hanno già parlato.

Una risposta e un’opera cinematografica eccezionale: si ride, si piange, si parla d’amore e di bellezza, immagini di sogno e di realtà si intrecciano, la vita razionale travolta dalla vitalità inconscia, dal non detto. Protagonista della storia è Ernesto Picciafuoco, un artista, un uomo tranquillo (anche se il cognome sembra rimandare a quell’antica poesia di Cecco Angiolieri!), padre di un bambino e marito separato da poco. All’improvviso Ernesto (interpretato da un bravissimo Sergio Castellitto) si trova letteralmente accerchiato da uomini di chiesa e da parenti interessati o bigotti: da tempo tutti tramavano a sua insaputa per la beatificazione della madre e adesso l’iter burocratico-canonico è arrivato alla stretta finale. Ma tutto dipende dalla conversione di Ernesto e dalla confessione di uno dei suoi fratelli, schizofrenico, che uccise a coltellate la madre: il povero malato, rinchiuso in una clinica, deve ammettere di averla assassinata perché si ostinava a supplicarlo di non bestemmiare. Il martirio allora sarebbe evidente e, insieme alla guarigione miracolosa di un improbabile Filippo Argenti, amico della famiglia Picciafuoco, condurrebbe senz’altro alla canonizzazione della donna.

Ernesto si trova così a combattere su molti fronti: armato solo della sua coerenza intellettuale e morale, deve salvare il figlioletto dalle spire dell’opportunismo religioso che lo avvolgono, complice la madre del bambino; deve opporre un netto rifiuto a quanti vorrebbero coinvolgerlo nel ridefinire l’immagine di sua madre trasformandola da “donna stupida… dal sorriso indifferente” a santa e martire, nonché ultimare il processo di separazione psichica da quella donna anaffettiva; deve svelare la falsità, l’ipocrisia, il vuoto, la vera pazzia che si nascondono dietro persone apparentemente normali. Unico premio, se così si può chiamare, una solitudine inevitabile, ma salutare. E magari l’amore di una donna fuori da tutto il contesto, fuori quasi dalla realtà. Un’immagine sana, poetica e carnale al tempo stesso che si muove leggiadra come la Gradiva di Jensen.

Un uomo di sinistra, Ernesto; nella sua accezione più nobile. Perché rifugge il compromesso, perché non si piange addosso, perché rivendica con calma estrema, seppure inequivocabile il suo diritto di essere ateo, anticonformista, libero. Perché non cede al ricatto del proprio travaglio interiore ed è persino disposto ad affrontare un bizzarro duello ottocentesco, preso com’è dalla sua sfida di “solo contro tutti”.

Bellocchio, dunque, ci regala questo eroe autentico e quasi inconsapevole. Il regista stesso, con la scultura magistrale di ogni personaggio del film, con l’architettura dei dialoghi e del montaggio, rievoca non solo le immagini di Salto nel vuoto, ma anche la bellezza e la forza espressiva di Diavolo in corpo, La condanna, Il sogno della farfalla, in cui le tematiche affrontate nella ricerca psichiatrica e nell’Analisi collettiva di Massimo Fagioli, erano altrettanto evidenti e poeticamente affrescate. Del ragazzo de I pugni in tasca Bellocchio fa rimanere una traccia nel personaggio del fratello matricida, oggi perduto per sempre in una pazzia inguaribile, quasi a voler sottolineare che la ribellione fallimentare del ’68, cui quel personaggio si riferiva, va definitivamente superata per lasciare spazio a un nuovo metodo del pensiero. Oggi si tratta di emergere dalle paludi dell’appiattimento generalizzato e di separarsi dalla falsa dicotomia tra bene e male, per occuparsi invece del rapporto tra sanità e malattia. Si tratta di rendere manifesta la follia che si nasconde al di là di certi sorrisi a prima vista normali e di rivendicare il primato dei rapporti umani. E sono impegni che hanno dell’eroico in tempi come questi!

Tanto è vero che L’ora di religione è un film ancora un po’ scomodo. Non a caso è stato vietato dalla censura ai minori di 14 anni. Non a caso certa informazione gli ha riservato un’accoglienza tiepidina (anche se la prevalenza dei commenti è entusiastica). E non a caso la Cei ha cercato di impedire che rappresentasse l’Italia al prossimo festival del cinema di Cannes.

Invece questo film, lo auguriamo a Bellocchio, vincerà la palma d’oro e questa sarà la vittoria anche di chi, come il suo protagonista, resiste e lotta affinché la poesia non gli venga rubata.

 

 

(30/4/02)© Paolo Izzo

 

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