Bastian contrario / Match Point, una partita persa

 

Ho imparato una specie di regola, prima di avvicinarmi a un film, ma anche a un romanzo. Meglio sarebbe non saperne quasi nulla e fidarsi dell’intuito per la scelta. “Quasi” è una breve nota letta magari qualche mese prima dell’uscita nelle sale o nelle librerie, il consiglio di un amico che ha sentito l’impulso di mandarmi un sms, la complicità della mia compagna che mi legge nel pensiero e butta lì la frase “temo che dovremo vedere il nuovo film di… leggere il nuovo libro di…”; ma di solito, dicevo, vado a naso… Con i film e con i libri.

Così sono andato a vedere “Match Point” di Woody Allen: con la cera nelle orecchie per non ascoltare le sirene dei botteghini e i commenti di chi usciva dallo spettacolo precedente. Sono sprofondato in una poltrona e ho tolto i tappi. Però, dalla scena della pallina da tennis in poi mi hanno accompagnato due sensazioni: la prima è che avrei potuto continuare a proteggere l’udito dai dialoghi stentati e fatui, rafforzata dalla tentazione di indossare quegli occhialetti bicolori che restituiscono tridimensionalità alle immagini piatte. La seconda sensazione… ve la dico più avanti, perché prima voglio salvare alcune cose. Innanzitutto la trovata finale, che si ricollega all’inizio del film e che riporta la mente alle storie di hitchcockiana memoria; secondo, una intuitiva scelta degli attori e questo dovrebbe fare contento Allen il quale sostiene che il suo lavoro di regista sta tutto lì, nel casting; terzo (e già, mentre scrivo, inizio ad avere qualche difficoltà)… ah sì, la scena in cui un amico acquisito del protagonista giura davanti alla di lui moglie di averlo visto in una tale via di Londra (cosa che farebbe scoprire la tresca e finire il film). Infine tento di giustificare la regia stessa inserendola in una tendenza generalizzata nel modo di fare cinema a livello internazionale che voglio rilevare: una sorta di neo-neorealismo che spinge i registi a raccontare le storie facendo corrispondere alla piattezza delle emozioni dei personaggi, un grigiore analogo nella maniera di riprenderli, di vestirli, di ambientarli, di farli parlare. Penso al “Caché” di Michael Haneke, per esempio, dove Juliette Binoche e Daniel Auteuil venivano decisamente mortificati dalla sceneggiatura e dalla scenografia pur di evidenziare la loro banalità di “normali”… Come pure un simile intento didascalico avrà l’insistita citazione di “Delitto e castigo”, anche se non regge l’accostamento tra Raskol’nikov, personaggio insano ma travagliato, profondo, intelligente, e il protagonista di Allen.

Ritorno a casa, quindi. E affronto tutte le opinioni su “Match Point” che ho conservato senza leggere, a cominciare da quelle dei miei commentatori di cinema preferiti, Escobar e Nepoti; leggo le interviste rilasciate da Woody Allen e dagli attori; navigo in internet e spulcio una caterva di recensioni… Della mia sensazione di malessere non c’è traccia, né del mio giudizio nel complesso negativo. Trovo anzi parole come capolavoro, bellezza, passione e desiderio, ma di nessuna riesco a farmi un’immagine mentale che coincida con i 124 minuti che ho visto io.

Scusate la suspense, del resto stiamo parlando di un noir e sarà concessa anche a me qualche divagazione! Torniamo all’inizio: a quando, sprofondato in una poltrona rossa, ho apprezzato la prima scena della pallina da tennis che si ferma sul net. Poco dopo compare l’attore Jonathan Rhys-Meyers, penso a dove l’avevo già visto e ricordo una simpatica commedia di qualche anno fa, “Sognando Beckham”, ma soprattutto ricordo la mia sensazione, confermata ora e qui, che il ragazzo si muovesse in modo effeminato e che le donne non rientrassero nei suoi interessi. Tanto è vero che quando il maestro di tennis interpretato da Rhys-Meyers nella pellicola di Allen incontra il rampollo della famiglia alto-borghese che con lui vuole riprendere a giocare (Matthew Goode), penso subito che anche Allen abbia ceduto alla tentazione di esplorare l’universo gay, sull’onda de “I segreti di Brokeback Mountain” di Ang Lee. Invece no, ecco il vero colpo di scena del veterano cineasta: l’uomo che si muove come una damigella, che sbuffa massaggiandosi le tempie, che cammina come una mannequin è niente poco di meno che uno “sciupafemmine” (e si vedrà alla fine fino a che punto arriverà a… sciuparle). Nello spazio di alcuni logoranti dialoghi riesce a conquistare tre donne: la sorella del rampollo, la di lui madre e perfino la sua fidanzata americana (Scarlett Johansson)! E qui va raccontata la “comica” scena del primo incontro: l’ex-tennista playboy arriva nella stanza dei giochi e si imbatte nell’attricetta platinata Nola-Johansson – molto sexy, per carità. I due si “riconoscono” come appartenenti alla stessa razza di arrampicatori sociali, belli e dannati, e lei lo sfida a un doppio scambio davvero memorabile. Prima sul tavolo da ping pong dove con la racchettina serve una battuta tutta miele e mutandine rosa, cui il nostro risponde con una sonora schiacciata molto maschia (e fuori campo!), per poco non accompagnata da un gridolino. Poi la distanza si accorcia e lei, con una voce presa in prestito alle migliori hot-line gli dice «Giochi pesante», per poi rafforzare il concetto dopo altre parole in libertà: «Giochi molto pesante». È così che tra i due scocca la cosiddetta passione: si bagneranno camicette, si strapperanno magliette, si benderanno occhi con la cravatta. Insomma tutto un repertorio di erotismo a buon mercato. Ma il trasporto dei due non convince affatto: lui, come si diceva, non la vede proprio e lei forse è troppo intenta a non smuovere il bel faccino imbronciato o a coprirsi il seno di fronte alla cinepresa (sic!), come nell’immancabile scena da tergo.

Ciò detto, non ci crederete, ma non siamo ancora arrivati al vero “dunque”. Per questo, vi devo svelare il finale, contando sul fatto che ormai “Match point” l’abbiamo visto tutti.

Muoiono due donne: la bella Nola e una anziana vicina di casa di lei. Le fa fuori con un fucile da caccia il maestro di tennis, in preda al terrore che una gravidanza inaspettata della ragazza possa mandare a monte tutti i suoi piani di arrivismo. Ecco, abbiamo scherzato sull’effeminatezza del protagonista (e chiedo scusa se qualcuno si è offeso), ma dando per ovvio che per tutti gli esseri umani ci devono essere pari diritti, il problema è l’omosessualità sociale latente, mai sconfitta, mai superata. Quella degli uomini che “ammazzano” le donne pur di conservare il loro primato di fredda razionalità; le donne percepite come mezzo, come sfogo per istinti animali, come esseri inferiori in quanto irrazionali… Ecco cosa sembra raccontare il nuovo Allen, apaticamente, senza alcun giudizio etico, direi anzi con un certo nichilismo. Ma ecco soprattutto, tragico sfondo, l’entusiasmo di spettatori e critici, maschi e femmine, verso storie per le quali l’assunto è che siamo tutti potenzialmente assassini pure fascinosi, tutti un po’ malati di mente; che le donne sono pericolose in quanto destabilizzanti, ancor di più se incinte; che la vita umana, insomma, è fatta così…

Piuttosto che credere in un teorema del genere, preferisco pensare che Allen abbia cercato, magari inconsapevolmente, di denunciare questa deriva culturale e forse, verrebbe da chiedergli: anche personale?

 

 

 

(Nuova agenzia radicale, 24/01/06)© Paolo Izzo

 

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