“La spettatrice”: suggestione di immagini

Intervista a Paolo Franchi

 

Immagini in silenzio. Un linguaggio rarefatto, ma attento. Una giovane donna che scruta nella vita degli altri fino al momento in cui un improvviso impulso la porta a mettersi in gioco direttamente, per seguire uno sconosciuto di cui si è innamorata…“La spettatrice” di Paolo Franchi è questo e molto di più. Pur essendo un’opera prima, sembra che il regista abbia voluto prendersi la libertà di raccontare una storia senza cercare il compiacimento del pubblico e della critica. Il risultato è ottimo: se tutti i registi esordienti raccontassero così, qualcosa si muoverebbe nel panorama cinematografico italiano. E si uscirebbe da film didascalici, troppo generazionali o con lo sguardo rivolto nostalgicamente indietro. Ci sarebbe più ricerca: su come siamo oggi e dentro.

Abbiamo intervistato Paolo Franchi per curiosare dietro la storia e i personaggi del suo “La spettatrice”.

 

«Tutti i film sono in qualche modo personali, ma devo dire che di personale in questo mio film c’è poco: molti anni fa avevo letto un romanzo di Eça De Quieroz, uno scrittore portoghese di fine Ottocento, che mi aveva colpito; poi ho conosciuto una donna che si chiama Valeria anche lei e che per certi versi somiglia alla Valeria del film; infine ci sono i film che ho visto, ovviamente. Insomma, l’idea è nata da vari spunti: da letture e da persone che ho conosciuto e che si sono amalgamate tra loro, dando vita a questa storia».

 

Il suo film ha un sapore un po’ antico. Una ragazza scruta nelle esistenze altrui perché è incapace di vivere la propria, eppure non ricorre a tutti quegli strumenti che fanno parte della realtà odierna: penso a internet, alle chat; penso a tutti quegli spettatori che attraverso la tecnologia vivono vite che non sono le loro…

 

«Non c’è una motivazione sociologica di questo tipo. Gli elementi moderni ci sono, i miei personaggi hanno il cellulare, lavorano al computer, ma certamente non volevo farne un dramma tecnologico, infatti i loro rapporti continuano per fortuna a essere reali. Sarebbe stato veramente estremo fare una spettatrice… virtuale. Estremo e nello stesso tempo più scontato: chi naviga su internet è già uno spettatore e dichiara la sua volontà di solipsismo. Con una realtà concreta di fronte, scegliere la virtualità della realtà è già diverso che mettersi davanti allo schermo di un computer».

 

Se non sociologica, la sua ricerca è centrata su quello che i personaggi pensano, sul loro mondo interiore…

 

«Quello sicuramente è fondamentale. Il cinema che a me interessa vedere e fare è un cinema sulla psiche, di introspezione. Che è il percorso che ritengo più interessante. Basta che questo non diventi una tesi precisa, un film analitico ma freddo. Cercare soprattutto di andare a raccontare, senza per forza dare delle risposte, l’irrazionalità che c’è in ognuno di noi».

 

Il suo approccio a queste tematiche è molto particolare. E per essere un esordio, mi sembra coraggioso da parte sua…

 

«Ripeto: non c’è niente di particolarmente viscerale in questa storia. Solitamente uno fa un’opera prima dove racconta molto, se non di sé, comunque di qualcosa che lo riguarda. Invece “La spettatrice”, ad essere sincero, non è un film di grande ispirazione. Semmai è un film che meritava di essere fatto, perché mi ha dato molti spunti; cercavo qualcosa che si distanziasse - ma non per snobismo - dalla faciloneria, dagli schemi un po’ prefissati del nostro cinema. Vedo che spesso, non sempre per fortuna, non si fa alcuna ricerca sul linguaggio e c’è una genericità delle immagini, della messa in scena… Tutto questo non mi appartiene».

 

È una questione di stile?

 

«Sì. Ma non è che io voglia con questo elogiare lo stile: lo stile spesso diventa freddezza. A meno che non lo determinino gli attori, le emozioni, i caratteri, i personaggi: alla fine è quello che deve arrivare. Se leggi troppo il linguaggio qualcosa non ha funzionato, secondo me».

 

In vari commenti si paragonano le sue atmosfere a quelle di Kieslowski, Truffaut, Sautet, Antonioni. Direi che come inizio non è male…

 

«Per il motivo che ho appena detto, tra i due grandi paragoni, che da un lato mi rendono molto fiero e inorgoglito e dall’altro mi intimidiscono, se dovessi scegliere tra Kieslowski e Antonioni non avrei dubbi: sceglierei Kieslowski cento volte, perché oltre a un linguaggio ha anche un’emotività, un’irrazionalità. Viceversa Antonioni spesso si nasconde un po’ dietro lo stile; è un po’ più freddo il cinema di Antonioni…».

 

Eppure, a me viene in mente un’altra idea: per alcuni spunti, per alcune immagini. Lei è in contatto con l’Analisi collettiva di Massimo Fagioli?

 

«Io non la conosco l’Analisi collettiva, nel senso che non ci ho mai partecipato. Massimo Fagioli è una persona che stimo molto pur non conoscendolo direttamente: certe cose che ha detto, che ha scritto sono molto interessanti. Lo trovo sicuramente un personaggio geniale e mi ha fatto molto onore il fatto di sapere che gli sia piaciuto il mio film. Almeno così mi è stato detto».

 

Le ho fatto questa domanda perché mi sembrava che ci fossero elementi che in qualche modo rimandavano a quella bellissima ricerca. E perché, nell’ambito dell’Analisi collettiva, sono molti i registi che si muovono già da tempo nella direzione che propone lei: penso ovviamente a Bellocchio, ma anche a Francesca Pirani, Iole Natoli

 

«In qualche modo io sono molto attratto dall’analisi, leggo molti libri, studio storia della critica psicoanalitica dell’arte contemporanea: è una materia che mi interessa profondamente. Al di là delle singole scuole di pensiero, mi interessa fare una ricerca in questo senso. È chiaro che in questo modo c’è un territorio di comunanza inevitabile con i registi che ha citato».

 

Il pubblico sembra incoraggiarla, no?

 

«Una cosa che mi ha colpito è stata proprio la risposta della gente, delle persone che escono dal cinema e parlano del film, ne discutono. Questo non lo calcolavo; è stato una sorpresa incredibile da una parte e dall’altra è una cosa che fa ben sperare. Soprattutto perché il pubblico è molto meglio di quello che si aspettano…».

 

Si riferisce agli addetti ai lavori?

 

«Sì, o comunque a quelli che determinano le logiche del mercato. Ecco, probabilmente il pubblico è stanco di essere sottovalutato. Non parlo soltanto del mio film, parlo in generale: il pubblico risponde a un film che in fondo non ha un linguaggio compromissorio…».

 

Che vuole dire?

 

«Se vai a sentire determinati operatori di cinema con un film come il mio, ti dicono “ormai il pubblico vuole recepire tutto alla svelta…”; sono discorsi che tendono a omologare tutto. Secondo me, invece, la gente è stanca e vuole che dal cinema italiano arrivino anche altre cose. Spero per tutti, soprattutto per gli altri, che sia la risposta del pubblico a far aprire un pochino la mente».

 

Ci vorrebbe una maggiore ricerca?!

 

«Il cinema italiano non dovrebbe essere sempre e soltanto quello fatto dai soliti tre o quattro attori, con la solita logica della narrazione, con la solita sceneggiatura, con la commedia, con certe cose giovanilistiche: con quegli ingredienti, sempre gli stessi, che poi alla fine stancano. Il cinema dovrebbe essere un continuo prototipo, un continuo cercare di creare delle opere che siano in perenne trasformazione. Ecco, la ricerca della novità, di qualcosa di differente dalle cartoline stereotipate che un po’ ci propongono, io penso che sia fondamentale per tutti».

 

C’è un’idea diffusa per cui sarebbe difficile essere originali, per cui dicono ‘come si fa a fare una cosa nuova se è già stato fatto tutto?’.

 

«È un utopismo terribile: si dice ‘nulla è originale allora continuiamo a non essere originali’! Il mio film non ha niente di originale: è stato fatto almeno cento volte. Ma tutto è stato fatto! Che cosa vuol dire?! Ciò che distingue il cinema dalla televisione o da quel cinema che è televisione pur dicendo di essere cinema, è l’approfondimento. Dal momento che lo schermo è grande e il tempo si dilata, in quelle due ore che si passano in un cinema, probabilmente la gente vuole anche recuperare la profondità dei personaggi, delle storie, delle motivazioni latenti che ci sono dietro a ogni gesto; perché è fondamentale anche per conoscersi. Credo che così debba essere il cinema. Almeno per me è questo lo stimolo che mi spinge a scrivere le storie, a fare questo lavoro».

 

È bizzarro come questa idea di profondità lei riesca a suggerirla attraverso una donna che, come lei stessa ammette nel bellissimo finale del film, si pone alla superficie della vita e non va giù, né riesce a riemergere. Lei hai detto che Valeria è troppo ripiegata sul suo mondo interiore; ma non sarà invece che lo sta un po’ perdendo?

 

«Non voglio avere la presunzione di conoscere i personaggi che racconto. Non penso che si riesca a conoscere gli altri o se stessi fino in fondo. Per cui allo spettatore secondo me devi lasciare la possibilità di interpretare quello che succede; se c’è una psicodinamica che hai raccontato è fondamentale dare la possibilità al pubblico di darne una soluzione. Non credo in una sola interpretazione della realtà».

 

I dialoghi, per quanto rarefatti, sono molto puntuali. Ho in mente l’immagine di Massimo, tradotto simultaneamente da Valeria che dice due frasi importanti: differenza tra depressione e tristezza; inutilità degli psicofarmaci nella depressione… Oltre al suono della voce, sono quelle parole a far emozionare la donna del film?

 

«Probabilmente lei riconosce in quello che lui dice qualcosa di sé, così come lui dice qualcosa di sé a sua volta. Sono immagini che si assomigliano. È un po’ anche un film romantico, nel senso anche pessimistico del termine: essere destinati, avere qualcosa in comune, ma non sfiorarsi nemmeno, perdersi. Trovo che nella scelta di Valeria di andarsene vi sia una certa sanità, anche se poi la maggior parte delle persone la interpreta negativamente. Ammetto anche che il finale in piscina è un po’ nichilista. Però essere andata via da lì, è stato un gesto di grande intraprendenza».

 

Rispetto agli approcci di Valeria con gli altri uomini del film, non c’è dubbio che ci sia un passo avanti. Ma l’impressione è che il masochismo prevalga nelle scelte della ragazza…

 

«Valeria è un personaggio molto idealistico e perciò rischia di non avere più rapporti concreti con la realtà. Altrettanto si può dire di Flavia o di Massimo. Sono tutti e tre personaggi che alla fine fanno delle scelte o non le fanno per evitare puntualmente di vivere la realtà, di affrontare il presente. Massimo, ad esempio, non può non sapere cosa lo aspetta venendo a Roma per tentare una vita di coppia, per stare con una Flavia che sa benissimo essere imprigionata nel suo passato: è già un autolesionista. Allo stesso modo la sua sensibilità lo porta sì ad avvicinarsi a Valeria, ma non sa benissimo che avvicinandosi a lei avrà un’altra “delusione”? Sono tutti personaggi che, attraverso la delusione o attraverso il rifiuto della realtà stessa, decidono di non viverla. Sostanzialmente, per me, sono tre facce della stessa medaglia che partono ovviamente dal personaggio interpretato dalla Bobulova».

 

Che è molto brava…

 

«Sì. Devo dire che nella sua interpretazione di un personaggio che poteva risultare antipatico, Barbora è riuscita, attraverso un grande lavoro suo e con me, a dare quell’empatia, quel calore, quell’emotività, quella fragilità, quell’essere sperduta e nello stesso tempo sensuale. Ha dato sangue, carne, voce al personaggio».

 

(Nuova Agenzia Radicale, 16/06/04) © Paolo Izzo

 

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