Erika, Omar e gli altri: incapaci di… essere sani

 

Si è conclusa sabato scorso la terza e ultima sessione del convegno “Il caso Erika. Psichiatria e diritto” tenutosi all’Università di Chieti, ma il discorso è ancora aperto. Proseguirà con l’idea di istituire un laboratorio sulla malattia mentale dopo essere partito proprio dal caso di Novi Ligure e aver palesato che “finalmente la psichiatria inizia a parlare e dibattere uscendo dal ghetto in cui è stata rinchiusa per anni in Italia, forse per scontare tutti i suoi peccati del passato”. Il commento è del noto criminologo Francesco Bruno che dell’incontro di sabato, a cui è stato presente, ha detto: “un’ottima occasione di confronto con una scuola di pensiero di cui condivido molte affermazioni”.

Una scuola di pensiero, appunto. Quella dello psichiatra Massimo Fagioli e della sua “Scuola romana di psicoterapia e psichiatria” che oggi appare come l’unico luogo dove ancora, strenuamente, si compie una ricerca sulle patologie che aggrediscono la psiche e sulle possibili modalità di cura. L’unico luogo da cui proviene una speranza che la guarigione non sia una chimera.

Era da molto tempo che non si assisteva a un convegno sulla malattia mentale condotto in maniera così propositiva. Di solito le riunioni degli esperti della materia si svolgono nella totale assenza di idee e si traducono in una mera chiacchierata, direi informale, sui… mancati progressi della psichiatria.

Come se questa branca della medicina avesse (da troppo tempo ormai) deposto le armi di fronte ad un nemico sempre più difficile da conoscere e dunque impossibile da sconfiggere.

Invece da questo nutrito gruppo di psichiatri, di psicoterapeuti, di addetti ai lavori, coadiuvato da una miriade di professionisti di ogni campo della cultura (dal diritto alla storia, dall’architettura alla filosofia, dalla musica al cinema) sono arrivate vere diagnosi, veri studi, un nuovo metodo del pensiero.

Basti pensare alla notevole analisi della storica Ilaria Bonaccorsi, ricercatrice alla Sapienza, che in una lunghissima relazione, inframmezzata sapientemente dagli interventi dei numerosi relatori (Claudia Alessandrini, Daniela Polese, Anna Maria Zulli, Andrea Masini, Franco Severino, Andrea Cantini), ha illustrato come nei secoli la ricerca sulla malattia mentale sia stata bene o male condotta, forse interrompendosi proprio laddove i tempi erano maturi perché si venisse a capo delle patologie che fanno ammalare l’inconscio.

 

Non è dunque un fatto casuale se più di duemila persone hanno seguito, sia sabato 23 febbraio che sabato scorso, le due giornate dei lavori. Ma è la testimonianza non solo di una crescente volontà di capire, ma anche di un rifiuto di soluzioni semplicistiche come quella di condannare Erika e Omar al carcere. E sebbene l’Università di Chieti abbia tenuto a precisare che il convegno non era un controprocesso rispetto a quanto deciso dai periti del Tribunale dei minori di Torino, è stato chiaro a tutti che una soluzione diversa è auspicabile.

A questo proposito, Massimo Fagioli ha affermato: “Erika è malata di mente. E nella perizia sono evidenti la stolidità e la fatuità del pensiero, ma anche la dissociazione e il manierismo. C’è anche l’anaffettività e l’indifferenza che caratterizzano la personalità narcisistica, ma questa è associata ad un forte disturbo del pensiero. E mettendo insieme a tutto questo la violenza, arriviamo ad un’evidente schizofrenia: 120 coltellate non è un delitto da magistratura è una questione psichiatrica”. E a chi ha affermato che non si può associare il concetto di schizofrenia a quello di violenza, lo psichiatra ha risposto perentorio: “Ma non è vero. La definizione moderna è chiara: la violenza è una delle principali caratteristiche della schizofrenia”; non risparmiando poi quanti vorrebbero Erika come un’adolescente semplicemente disagiata: “È un insulto per tutti i suoi coetanei. Erika è il prodotto di una civiltà razionale, perché non può essere il disagio giovanile a far sferrare 120 coltellate a madre e fratello. Qui occorre che la psichiatria si muova per fare ricerche molto approfondite, più di quanto non sia accaduto finora. Il caso di Novi Ligure ci obbliga a studiare l’origine della malattia mentale… Ciò che è difficile da capire è che il cardine della malattia mentale non è il rapporto con le cose, ma il rapporto con gli altri esseri umani”. 

Il discorso è ancora aperto, dicevo. La ricerca è amplissima. Ma si può forse dire che è arrivata una sonora spallata a quel pesante muro di gomma che non vuole ammettere la malattia mentale perché non sa curarla, che pone il veto a strutture sanitarie idonee perché non saprebbe gestirle, che preferisce condannare al carcere un malato di mente, magari concedergli la grazia dopo qualche tempo e infine assistere inerme a un nuovo delitto che quel malato di mente potrà commettere contro di sé o contro gli altri. Tutto perché non è guarito affatto, tutto perché non è stato curato!

L’augurio è che si smetta di chiudere gli occhi; soltanto così la presunta “normalità” di episodi come quelli avvenuti a Novi Ligure, Sesto San Giovanni, Carovigno, Novara, Cogne potrà essere considerata un’eccezione alla sanità della natura umana e come tale curata.

 

 

(Nuova Agenzia Radicale, 05/03/02)© Paolo Izzo

 

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