La
180: una legge frettolosa e incompleta
Intervista a Luana
De Vita
È del 1978 la
cosiddetta legge Basaglia, dal nome dello psichiatra
che fortemente la volle con l’intento principale di chiudere i manicomi. A quell’epoca i radicali si stavano occupando del tema della
malattia mentale e il Parlamento, per scongiurare un
referendum, approvò frettolosamente una legge, la 180, che oggi appare
intoccabile. Ma i cui limiti sono evidenti… Luana De
Vita, psicologa e giornalista, ha raccontato la propria storia di figlia di un
paziente psichiatrico, in un libro molto coraggioso intitolato “Mio padre è un
chicco di grano” (Ed. Nutrimenti, aprile 2004, pp.
126). Dal racconto di una vera e propria odissea tra Asl,
centri di igiene mentale, centri diurni, dipartimenti
di salute mentale, emergono con forza le gravi conseguenze di quella legge poco
chiara e mal applicata. Abbiamo intervistato Luana De Vita, che ha levato la
sua personale protesta contro questo stato di cose, nonostante la sua voce
potesse risultare fuori dal coro.
«Sì, è stato difficile decidere di scrivere
questo libro, ma mi sono resa conto che era fondamentale tirar dentro persone
in qualche modo estranee al problema… L’obiettivo, la necessità attuale è
quella di tornare a sensibilizzare la gente. Quello che è stato possibile nel
1978 in Italia oggi non sarebbe ripetibile, perché non
c’è una società civile che si preoccupa, che invece allora c’era. Oggi non si
parla dei malati mentali e purtroppo, quando se ne parla, lo
si fa in termini di ritorno a una concezione di controllo e di custodia
piuttosto che a una concezione di terapia e cura. Quindi
l’idea è stata quella di provare a scrivere un libro se non altro per avere
degli spunti, qualche spazio. E anche per fare un minimo di autocritica,
noi familiari, noi medici, noi operatori…»
Cosa c’è che non
va nella legge 180?
«La situazione che essa
ha creato in Italia… Non per colpa della legge in sé, ma per il mancato
appuntamento con le Regioni. La 180 era solo una legge quadro, con
pochissimi articoli peraltro, che indicava soprattutto la necessità di chiudere
l’istituzione manicomiale…»
C’era un referendum dei radicali e come al
solito per fermarlo c’è stata una corsa per approvare una legge…
«E questo è raccapricciante, perché
sostanzialmente passò una legge rivoluzionaria, ma dove in primis non fu
indicato assolutamente dove dovevano essere reperiti i
fondi! La legge diceva “si chiudano i manicomi e si aprano dei servizi
territoriali”, però non indicava quale era la strada e quale era la possibilità
economica messa a disposizione dallo Stato. E soprattutto si demandava alle
Regioni di legiferare in merito, ma in assenza di fondi dedicati… Si può
immaginare quello che è successo: a cominciare dal S. Maria della Pietà, tanto
per fare un esempio, che è stato chiuso soltanto nel 1999, cioè
venti anni dopo la legge!»
Sicuramente si abbatteva con effetto immediato la spesa pubblica
inerente i malati mentali…
«Il passo è stato fatto così rapido anche per
questo motivo: cioè chiudere il discorso da un punto
di vista economico. Ritengo – e lo ribadisco ovunque –
che la 180 sia da considerare una legge straordinaria: in questo senso siamo e
rimaniamo all’avanguardia… Ma gli italiani hanno spesso intuizioni
straordinarie, ma sulla capacità di tradurle in pratica, ci sono sempre grossi
problemi. Che nel caso della 180 sono soprattutto territoriali… In Italia ci sono differenze enormi: a Roma c’è una quantità
incredibile di cliniche private, mentre in tutto il Friuli Venezia Giulia non
ce n’è nemmeno una, perché funzionano le strutture pubbliche! E questo
significa che se vivi a Roma hai un certo tipo di percorso e se nasci a
Trieste, ne fai un altro… Si è resa completamente
casuale e del tutto arbitraria una procedura che in linea generale sarebbe
indicata, un po’ dalla legge e un po’ anche dai Progetti “Obiettivo nazionale
per la salute mentale” ai quali le Regioni dovrebbero rifarsi…»
E ciò non
avviene?
«No. E purtroppo quello che io vedo attuato è
una situazione di piccoli non voglio dire feudi… Insomma in certi Dipartimenti
di salute mentale si aprono a volte dei centri diurni che sono agghiaccianti…»
Possiamo dire che se si continua a negare la malattia mentale, ad aver
paura a dire che la malattia mentale esiste, alcuni Dipartimenti diventano meri
sportelli per la prescrizione di psicofarmaci?
«Quella è la psichiatria biologica, dove si opta per una via di farmacologia totale e con una presa in
carico del paziente limitatissima alla malattia…»
Agendo sui sintomi e soltanto su quelli…
«Be’, la malattia
mentale è solo sintomo. Non c’è altro! Se c’è altro appartiene
alla neurologia, che si occupa delle lesioni all’organo cervello. Lo psichiatra
deve occuparsi invece di quelli che sono i disturbi del comportamento. Basaglia stesso quando fu approvata la 180 disse che la
legge andava presa per quello che era, cioè una legge
molto frettolosa, superficiale e che di base conteneva un errore concreto:
l’ipotesi che si potesse paragonare la malattia fisica alla malattia mentale.
Che per lui era come paragonare i cani alle banane…»
Nel libro anche il tuo sguardo alla malattia mentale sembra cercare di
trovarne le cause nella psiche più che in una malattia organica del cervello…
Tanto che, mentre per le malattie del corpo si segue un iter di routine -
diagnosi, eventuale ricovero e cura - tu affermi che ciò non avviene per le
malattie mentali…
«Infatti. Perché esse
hanno una loro peculiarità e non esiste un patologia organica
da rintracciare. Cambia tutto il processo di indagine,
di accertamento e poi, come avrai sicuramente letto nel libro, la cosa
probabilmente più importante è che quando parliamo di diagnosi in psichiatria
non parliamo di diagnosi in medicina: cioè le nostre etichette diagnostiche
sono in realtà un agglomerato di sintomi che vengono assemblati e
statisticamente riconosciuti come presenti in un x per cento di persone e
quindi chiamati schizofrenia, depressione, etc. Tanto per dire, fino al 1972
anche l’omosessualità era nel Manuale diagnostico statistico della malattia
mentale…»
Il famigerato DSM…
«Sì. La Bibbia, diciamo così: le malattie
mentali sono elencate lì e al DSM ci si rifà come strumento sia di psichiatria
che di psicologia, per studiare quelle che possono essere le diagnosi. La
farmacologia, favorendo in questo senso la stessa 180, ha creato medicinali che
riescono a contenere, a ridurre il sintomo e quindi a rendere socialmente più
accettabile il malato…»
A che prezzo però?
«La conseguenza più drammatica, faccio un
esempio, è che se io parlo di deficit di attenzione, parlo
di una malattia che è stata catalogata con il solito agglomerato di sintomi su
bambini molto agitati, eccitati, poco propensi a stare ad ascoltare, ancora
meno a leggere… Hanno stabilito che questo si chiama deficit di attenzione con
ricerche sponsorizzate da grosse case farmaceutiche che poi hanno sparato sul
mercato il Ritalin, che tra l’altro sta invadendo
anche l’Italia. Per cui noi cominciamo a dare psicofarmaci a bambini di 8, 9 o
10 anni e parliamo di terapia, di cura, di medicina!»
Ci sono altre strade?
«C’è la psicodinamica,
per esempio, che vuole invece vedere dietro a queste diagnosi delle ragioni
inconsce, un po’ sul filone della ricerca e della tradizione psicanalitica e
psicologica… C’è la psichiatria orientata al sociale, che valuta anche quelli
che sono gli aspetti prodotti dalla società e la prevenzione, che è un altro
punto di vista importante. Cioè il contesto in cui
determinate patologie ci sono, gli sviluppi che hanno… Insomma, ci sono diversi
approcci.»
Però a me sembra di capire, anche da quello che paventi nel libro, che
la ricerca psichiatrica abbia approfittato della legge
180 per arrestarsi, per smettere di occuparsi in qualche modo della malattia
mentale e che sia andata avanti soltanto la ricerca… farmacologica.
Come se ci fosse una rinuncia di fondo: non siamo in
grado di capire la malattia mentale, ma soprattutto non siamo in grado di
curarla né di guarirla e allora rinunciamo al nostro ruolo di ricercatori e
deleghiamo l’assistenza alle famiglie o a quelle strutture che ancora non
sappiamo come definire…
«No, non c’è stata una vera e propria delega
in questo senso… C’è stata forse più un’anarchia totale. Cioè,
in virtù di questi diversi indirizzi che la psichiatria può avere al suo
interno, tu puoi trovare lo psichiatra che è molto orientato verso una
psichiatria psicodinamica e sociale, per cui si fa
carico del paziente nella sua interezza; vai in un altro Dipartimento che ti
appartiene per zona e trovi quello organicista,
biologico che crede ciecamente nella farmacologia e quindi ha un approccio di
questo tipo. I luoghi di cura in realtà ci sono e sono standardizzati in tutta
Italia: un Dipartimento di salute mentale si deve occupare della promozione della tutela della salute e dovrebbe attivare
quei servizi che sono il Day Hospital, il centro diurno, gli ambulatori, le
psicoterapie… Queste cose si somigliano in tutte le regioni, ma poi è come
viene erogato il servizio che cambia in maniera abissale e ciò determina che
nelle aree in cui in realtà non si è attivato veramente un servizio
territoriale, si verificano situazioni che io ed altri chiamiamo manicomi di
ritorno, cioè abbiamo abbattuto le mura del manicomio ma lo spazio manicomiale
è lo stesso… Se si finisce in certi centri diurni, ci si trova in un posto con
pazienti di tutte le età, con problemi di ogni tipo, che passano due ore lì a
fumare; poi gli fanno il laboratorio di ceramica, di pittura, etc. Tutte cose
che rimangono nell’ottica dell’attività fatta per intrattenere il malato di
mente, ma niente di più… E per fare questo ci sono anche giri di soldi
incredibili.»
Mai come quelli delle cliniche private, che approfittano di questo
marasma e dove può accedere soltanto chi è in grado di
sborsare cifre esorbitanti per tenere il proprio parente in un posto dove ogni
tanto gli fanno un elettroshock, poi gli danno un quintale di farmaci e così
via…
«Se parliamo di cliniche
private il discorso diventa veramente drammatico. E
anche da un altro punto di vista: il tema della chiusura del manicomio era
proprio il problema dell’istituzionalizzazione della persona che
automaticamente, trattandosi di situazioni che durano molto nel tempo, prendeva
ad avere abitudini sociali e personali legate all’istituzione. Per cui, l’ho
scritto nel libro, per mio padre si mangia a mezzogiorno da tutta la vita e si
cena alle sei da tutta la vita. Perché è naturale che l’individuo che subisce
questo tipo di esperienza assuma quei ritmi che
diventano propri, personali. In più ci sono tutti i deficit di relazione che
l’istituzionalizzazione comporta, in termini di abituarsi alla libertà… E
diventa una specie di circolo vizioso al quale però
spesso le persone si attaccano disperatamente, perché diventano delle regole. Che è una cosa importantissima per i bambini molto piccoli: le
regole della vita quotidiana diventano le loro sicurezze; ritrovare una certa
ritualità, essere sicuri che quella è l’ora del pranzo, sono delle acquisizioni
di sicurezza che aiutano il bambino a crescere. Allo stesso modo per il
malato, istituzionalizzato per anni, diventa vitale essere sicuro che quelle
cose rimangano e quindi se le porta anche nella vita
privata, semmai dovesse riavere un inserimento nella vita normale. Io penso che
sia importante spostare l’assistenza in quelli che vengono
chiamati “territori della normalità”, però ci vuole il coraggio di affrontare
il fatto che la famiglia non è sempre il luogo ideale dove il paziente può
essere rimandato. Anzi!»
E si dovrebbe
sempre fare una distinzione tra il prendersi cura e il curare. Per il prendersi
cura ci sono mille associazioni di volontari, ma curare è un’altra storia…
«Esatto. Poi comunque,
si deve tenere in conto che è importante avere una vita sociale, ma è anche
importante averla nei termini della normalità… Giorni fa ero ad un centro
ippico con una collega che fa questa ippoterapia che
è un’altra delle tante grandi “illusioni magiche” della terapia, come le ha
chiamate lo psichiatra Camillo Valgimigli. Voglio
dire che l’ippoterapia diventa una cosa bellissima se
la si vive come gita! Se questi ragazzi che
normalmente hanno soltanto posti orrendi dove andare, hanno uno o due giorni a
settimana in cui qualcuno li prende, li porta in pulmino in un maneggio… è una dinamica che farebbe bene anche a una persona normale. Il
problema è quando tu mi vuoi spacciare questa come una riabilitazione alla
normalità, così mi prendi due schizofrenici, un ritardato mentale, due
mongoloidi e li porti a cavallo… Giustamente alcuni
dicono che è un inizio, ma non è cura.»
(Nuova Agenzia
Radicale, 03/11/04)©
Paolo Izzo
Cura della malattia
mentale. Ma i medici chi li cura?
Intervista a Luana De
Vita
Si sente spesso parlare di disagio psichico o
sociale; mentre, anche di fronte a fatti di cronaca molto gravi, diagnosticare
una malattia mentale, semplicemente pronunciare queste due parole, appare come
uno scoglio insuperabile. Perché nella psichiatria ufficiale la confusione è
tanta e quando ci si trova di fronte a un malato di
mente sembra più accettabile ricorrere alla farmacologia, per “contenerlo”, per
riportarlo alla “normalità”.
Abbiamo intervistato Luana De Vita, psicologa,
giornalista e autrice di un libro molto interessante, “Mio padre è un chicco di
grano” (Ed. Nutrimenti, aprile 2004, pp. 126), dove
racconta con coraggio le vicissitudini cui è andata incontro come figlia di un
paziente psichiatrico, sempre in bilico tra l’indifferenza e l’incompetenza di
certi medici e la situazione di totale anarchia in cui si trovano oggi i
Dipartimenti di salute mentale…
Spesso la cronaca ci racconta di persone che,
pur avendo un perfetto rapporto con le cose, con la realtà materiale ed essendo
dunque apparentemente normali, un giorno compiono una strage… Cita molti di
questi episodi in un capitolo del suo libro. Che cos’è
per lei la “normalità”?
Se una
persona ha equilibrio, normalità, capacità cioè di
gestirsi e di essere funzionante – questa è l’unica normalità riconosciuta – il
modo in cui ce l’ha, se non crea problemi agli altri, non importa. Normale è
una persona che riesce a “funzionare”: alzarsi,
lavarsi, vestirsi, andare a lavorare, tornare a casa e prepararsi da mangiare.
Nessuno psichiatra potrà mai dire se quella persona avrà un’esplosione
psicotica…
E
non dovrebbe invece capirlo?
No.
Perché il comportamento umano è completamente diverso dal corpo umano. Se non
accettiamo questa idea continueremo a cercare una
malattia che non c’è. In ragione di un funzionamento sano di tutti gli organi,
possono esserci una serie di problematiche che non sono prevedibili. Per
esempio quelle dell’assassino non lo sono. Si può magari ragionare in termini
di fattori che possono favorire un certo tipo di comportamento, ma sono
pochissimi quelli che si muovono in questa direzione: significherebbe
considerare il disagio come legato non solo al rapporto medico-paziente, ma
anche alla condizione in cui il paziente vive. Significherebbe accettare di
farsi carico di una serie di situazioni…
Ma il medico non ha l’obbligo di curare?
Sì, ma se uno
ha un’infezione e va dal medico, il medico gli prescrive delle medicine. Se poi quello va a casa e ha una situazione familiare
terribile, francamente al medico che deve curare l’infezione che gliene
importa! Certo, se uno viene da me e mi dice “ho preso appuntamento perché io
la mattina, quando mi alzo, vorrei uccidermi”, io mi devo preoccupare di dove
vive, con chi vive, che relazioni ha…
In questo senso sembra
esserci un’impotenza del medico, come lei dice bene nel libro, anche per
effetto della legge 180. Allora è più facile dire che
uno sta bene piuttosto che diagnosticargli una malattia mentale…
Sicuramente
c’è l’impotenza medica e la 180 ha affidato alla famiglia del malato la cura di
queste cose. Il che è incredibile! Vedi queste famiglie impegnate ad allarmarsi, ma impotenti a loro volta. Non le nascondo che
un altro problema serio è quello della non responsabilità dei medici: il fatto
che il tizio che aveva le armi poi le usi per sparare
alla moglie dovrebbe significare che il medico che ha firmato il certificato di
idoneità psico-fisica per le armi venga preso e sospeso dalla professione…
Perché quanto meno il medico chiamato allo stesso compito la volta successiva
approfondisca l’indagine!
Arrivando al trattamento delle malattie della
psiche, sempre che ci si arrivi, secondo lei come dovrebbe agire un medico, con
la psicoterapia o con i farmaci?
Con tutti e due. Come avrà letto nel libro, ho un atteggiamento
molto critico rispetto soprattutto all’abuso di farmaci e rispetto alla
consuetudine di delega al farmaco, che è una mancata presa in cura del
paziente, cui si propone solo una lista di medicine da prendere. Detto questo,
ritengo che una persona depressa ad esempio può avere per un periodo un grosso
beneficio dall’assunzione di un farmaco, se accompagnata da un percorso
psicoterapeutico che vada a indagare su quali sono le
ragioni di quella depressione e aiuti a rinforzare quelle che sono le risorse
della persona…
E
della psicoterapia che mi dice?
Personalmente
mi sto specializzando in psicoterapia cognitivo-comportamentale
e questo perché è un tipo di psicoterapia che si concentra molto sul sintomo e
non è la terapia freudiana che ti stende sul lettino per dieci anni a parlare
di quando eri piccolo… Certo, se da psicologa mi trovo di fronte a una situazione di psicosi, rimando il paziente a uno
psichiatra…
Nel libro descrive molte situazioni in cui si
è trovata accompagnando suo padre da una clinica all’altra. Che succede oggi a un paziente psichiatrico?
Nella
pratica, che io ho vissuto come figlia ma anche come persona che stava lì con
altri parenti e con altri pazienti, le cliniche sono luoghi in cui negli anni
ci si reincontra: i pazienti saltellano da una
clinica all’altra e questo vuole dire non solo che i problemi si ripropongono, ma anche che il circuito in cui si transita è
sempre lo stesso! Questo è secondo me ciò che va spezzato: a cominciare dai
giovani. Parlando per esempio di lavoro, una volta che il paziente venga abbastanza compensato, si dovrebbe tentare a
reinserire la persona in un ambito di lavoro, di studio o di impegno sociale; a
reimmetterla in un contesto di normalità.
Compensazione, normalità, reinserimento…
Perché non parla mai di guarigione?
Bisogna
prendere atto dei limiti oggettivi nella medicina ufficiale. Lo dico con molta
serenità. Con questo stesso atteggiamento guardo alla malattia mentale e al
disagio psichico. Mi sto occupando ultimamente di mobbing e da me vengono professori, primari di
reparti ospedalieri, general manager, non solo operai
massacrati dal datore di lavoro. Sono persone sanissime che fino a tre anni fa
se sentivano parlare di disagio psichico ridevano; poi si sono ritrovati ad
aver paura a chiudere gli occhi! Allora, secondo lei, quello era matto pure
prima? Secondo me no. Voglio dire che siamo portatori
del nostro benessere ma anche della nostra malattia…
Lo psichiatra Massimo Fagioli sostiene che alla nascita siamo tutti sani. E che semmai ci si ammala dopo, nei rapporti con gli altri…
Certo.
Fagioli per me su quella cosa è stato grandioso,
perché questo bambino patologico e mostruoso di Freud
era una idea insopportabile! Quello che voglio dire io è che proprio perché
siamo sani portiamo dentro di noi la malattia.
Ma Fagioli dice che
ci si ammala, non che portiamo dentro di noi la malattia!
Guardi che il
mio pensiero non è in antitesi con quello di Fagioli, che condivido. E’ solo
che io lo dico in un modo diverso, nel senso che se esotericamente
non può esistere il bianco senza il nero, non può esistere una persona
assolutamente sana che non abbia anche dentro di sé coscienza e riconoscimento
della malattia, intesa esattamente come l’altra faccia della salute.
Però lo psichiatra almeno deve essere sano,
altrimenti come fa a curare gli altri?
Eh no! Questo
è un pensiero utopistico. Perché parliamo di un essere
umano e come tale non può essere perfettamente sano, altrimenti non è un essere
umano. Come può un essere umano non avere le stesse caratteristiche di un altro
essere umano? Lo psichiatra può solo avere delle conoscenze, delle tecniche,
degli strumenti, in questo senso, che possono consentire l’attuarsi di una
relazione terapeutica con un paziente, di scambio…
Insisto: uno che si occupa della realtà
mentale altrui non dovrebbe avere la propria in condizioni di sanità?
Come le ho detto all’inizio, io ho la mia idea di sanità. Per me uno
sano è uno funzionale, se funziona è sano. Cionondimeno
potrebbe essere uno che qualche disturbo ce l’ha, non
psicotico ovviamente, ma che qualche aspetto suo personale che so di nevrosi ce
l’ha… Bisogna capire cosa si intende per sanità. Certo io uno psichiatra
depresso non lo vedo bene a fare lo psichiatra. Nonostante questo, penso che molti dei colleghi che conosco e
dei medici che ho conosciuto prima come figlia di un paziente e poi come
psicologa, di problemi ne abbiano una valanga…
(Zefiro,
gennaio 2005)©
Paolo Izzo
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