Della risonanza, ovvero la musica e la psiche

Intervista a Tony Carnevale

 

Tony Carnevale è un musicista a tutto tondo: compone e suona senza limiti di stile. Oltre ai tanti lavori realizzati per altri artisti, è autore di 5 dischi personali con i quali è riuscito a ritagliarsi uno spazio notevole, grazie anche alla critica specializzata che lo tiene in grande considerazione in tutto il mondo - l’ultimo, bellissimo CD è dell’anno scorso e si intitola “LIVE. Rock Symphonic Concert” con la partecipazione di Francesco Di Giacomo e Rodolfo Maltese del Banco. Ha scritto canzoni per Patty Pravo e diretto artisticamente tanti personaggi; ha composto e realizzato colonne sonore di film, opere coreografiche, pubblicità nazionali, eventi e rubriche televisive (la sua sigla di “Appuntamento al cinema”, del 1986 è tuttora usata dalla Rai); dal 2001 ha ideato e conduce il “Laboratorio di formazione e sviluppo del pensiero musicale” aperto a compositori, interpreti e… ascoltatori di musica. Partecipa da anni all’Analisi collettiva dello psichiatra Massimo Fagioli, dove ha potuto affiancare la sua ricerca sulla musica alla ricerca sulla psiche, fino a scrivere egli stesso un importante articolo sulla rivista di psichiatria e psicoterapia «Il sogno della farfalla», intitolato “Oltre i suoni materiali”. Lo abbiamo intervistato proprio sul rapporto tra suoni e inconscio e quando ci siamo domandati quale potesse essere il giusto… attacco per una simile conversazione, Tony ha risposto così:

 

«La cosa interessante può essere non parlare di musica. Ma parlare della relazione che c’è tra musicisti e ascoltatori. Riferirsi cioè a una dinamica di rapporto umano, evitando un discorso asettico di estetica artistica: ci sono già tanti libri su questo argomento!»

 

Infatti. Il tuo laboratorio si occupa proprio di questo rapporto, no?

 

«Si comincia da lì: ricreando la catena compositore-esecutore-ascoltatore all’interno del laboratorio, dando cioè libero accesso a persone che vogliono venire soltanto ad ascoltare quello che succede, interagendo con gli altri nello sviluppo della composizione. Con questa terza figura, l’ascoltatore, che prima non era presente, si mette in gioco l’immediato confronto con l’idea, la realizzazione e la reazione all’ascolto».

 

Se la musica non è rapporto interumano allora non è musica. Possiamo dire così?

 

«Discorso difficile… Diciamo che non è musica se almeno non parte dal rapporto interumano, dall’elaborazione non cosciente dei rapporti umani, e comunque dall’intenzione di comunicare qualcosa a qualcuno. E poi non si è in rapporto solo con l’oggetto musicale. Qualche tempo fa ho ricevuto la telefonata di una donna che voleva conoscermi perché era rimasta colpita dalla colonna sonora del film “A un millimetro dal cuore”… È come se già nella sua percezione del fatto musicale in sé, si fosse formata un’idea del compositore, della sua realtà umana, anche in assenza della persona. Abbiamo trattato questo argomento anche in un articolo su «Il sogno della farfalla», la rivista di psichiatria e psicoterapia: posso anche non vedere un violinista che suona, ma posso capire da come suona il tipo di coinvolgimento che ha. Se è espressivo oppure no. Se è caldo, se è freddo. Quando una persona ascolta musica, ma non ha di fronte l’esecutore, associa comunque a ciò che ascolta una realtà umana; sa che l’emozione che ha provato è la reazione a qualcosa che viene da un altro essere umano».

 

Esiste l’espressione “muovere le corde interne”. Come se l’onda sonora raggiungesse uninterno’ che non esiste materialmente, ma è… inconscio.

 

«C’è un concetto interessante: affinché si possa creare il suono ci deve essere una vibrazione, quindi ci deve esser un movimento. Come se l’assenza di movimento fosse l’assenza di musica: se non c’è un corpo vibrante, non c’è nessun suono. Si aggiunga che i corpi vibrano per sollecitazione diretta, ma anche per simpatia: nel senso che tutti i corpi hanno una loro dimensione e delle caratteristiche di elasticità rispetto alle quali vibrano su certe frequenze. Se ascoltiamo un piano, non sentiamo solo il suono del piano, ma anche le riflessioni e le risonanze di tutti gli elementi che compongono l’ambiente circostante. Suona tutto l’ambiente e ogni ambiente ha un suono! Al di là degli aspetti tecnici, per quanto riguarda la realtà umana il concetto è quello di risonanza interna…».

 

Siamo arrivati al punto. “Risonanze” è anche il titolo del tuo primo disco…

 

«Quando c’è qualcosa che possiamo chiamare musica, questa vibrazione  mette in moto le tue - chiamiamole - corde interne, che entrano, appunto, in risonanza: in questo senso la comunicazione in musica trasferisce indubbiamente fantasia umana a fantasia umana. Non c’è altro! Se uno pensa che la musica sia una cosa a sé stante, la vive in modo astratto, o, al più, tecnico o estetico».

 

Perché?

 

«Perché allora se butto dei dati in un computer e li faccio partire a caso rispettando quelle due o tre regolacce puramente armoniche, sulla consonanza, io riascolto una cosa che suona, ma che probabilmente non mi darà nessuna emozione».

 

Cioè suona, ma non risuona?

 

«Esatto. E c’è di più: al laboratorio spesso ci chiediamo perché tante volte si crede di aver scritto una composizione straordinaria, ma chi l’ascolta non è tanto coinvolto emotivamente quanto per un altro pezzo al quale abbiamo dato meno peso e che invece scatena delle reazioni inattese. Da una parte è un imprevedibile che fa parte dell’opera d’arte, dall’altra perché non fare un’ipotesi che prima o poi questa cosa sia possibile capirla?».

 

Ti sarai fatto un’idea…

 

«Tra le cose che ho potuto afferrare frequentando i seminari di Analisi collettiva c’è il fatto che la malattia mentale è malattia del pensiero e che la psicoterapia è la cura di questo pensiero. Cioè la psicoterapia riesce a trasformare il modo in cui una persona pensa, trasforma anche i suoi sogni, dal momento che agisce sul pensiero non cosciente. Se noi partiamo da questa considerazione, come posso non dire che deve esistere un pensiero musicale? Deve esistere qualcosa che attraverso i suoni, attraverso una combinazione di suoni che sceglie chi compone, diventa comunicazione, diventa linguaggio, non nel senso che c’è una sintassi, un vocabolario, ma nel senso che comunica qualcosa».

 

Come per la scrittura anche nella musica, partendo da un segno, che è la nota sul pentagramma, arriviamo a fare un linguaggio, cioè un rapporto tra esseri umani?!

 

«In realtà quel segno, ed è un’idea di cui rimango convinto, in musica non è nient’altro che un’indicazione spazio-temporale; mentre con la parola una combinazione di segni si associa a una figura, a un concetto, in musica questo non c’è, perché non esiste un’immagine del do! Il do non ha nessuna funzione da solo, deve essere in relazione con altri suoni, con un ritmo… la musica è un delicato equilibrio tra intenzione espressiva e forma, che diventano segni grafici dai quali l’interprete tenta di ricreare l’emozione attraverso l’esecuzione di questa successione di suoni nel tempo…».

 

Vuoi dire che la musica può essere più regressiva della parola scritta?

 

«Sono domande difficilissime… È una cosa che non ho ancora capito bene. Sicuramente quello che stiamo dicendo si lega al preverbale e a tutto quel discorso di pensiero per immagini che è tipico del primo anno di vita… La musica è talmente indefinita, anzi proprio invisibile che può solo legarsi a un’idea di immagine come sensazione, emozione… Nell’articolo citato prima parlavo di “masse emotive”, forse perché l’espressione “immagine interna” appartiene agli psichiatri; ma credo che i due concetti siano molto simili, nel senso che si riferiscono ambedue ad una idea di “invisibile ma percepibile”. Ho insistito sul discorso dell’emozione perché la musica è sostanzialmente questo. La reazione che c’è col fatto sonoro, c’è soltanto col fatto sonoro. È come se la musica potesse superare il discorso cosciente, è come se arrivasse più in fondo. Quando c’è la musica entra in… tutto il corpo. E fa partire l’emozione. Chiaramente entrano in gioco l’immagine interna di chi la compone, di chi la suona e di chi l’ascolta. Ma la musica mi viene da legarla all’emozione, agli affetti… Forse dovrei smetterla di parlare di musica ed usare il concetto di musicalità, cioè una sorta di armonia interna che si esprime in diversi modi, quindi anche in musica…».

 

Lo scrittore che voglia raccontare il mare ha in qualche modo gli strumenti per farlo. Lo può fare bene o male, ma le parole ce le ha. Il musicista che si trovi di fronte allo stesso desiderio, come fa?

 

«Qualcuno aveva chiesto a Beethoven, a proposito della Pastorale - dove c’è una scena al ruscello, dove ci sono elementi della natura, insomma - se c’era una descrizione di immagini definite… Lui rispose che è più espressione di sentimenti che descrizione. Cioè: il musicista, non potendo fare l’immagine definita né traslata - perché non può fare nemmeno il quadro astratto del mare - può dare la sensazione del mare».

 

In che modo?

 

«O fa lo specchio e cioè crea un’imitazione sonora del mare, che è ovviamente la più trita delle musiche di sottofondo. Oppure ti dà la sua emozione del mare, che non ha niente a che fare con l’oggetto, ma che riesce a trasferirti l’emozione, la sensazione dell’essere umano di fronte a questo qualcosa! Non essendo appunto descrivibile, uno ci arriva per intuizione, ma devi essere un grande ascoltatore. Mi viene in mente un grande psichiatra che interpreta i sogni: da un suono fa un’immagine e legge qualcosa. Questa capacità di leggere, trasferita alla musica, può far sì che si scriva una musica con un’emozione - chiamiamola così - del mare e che qualcuno la senta in questo modo… Altrimenti al musicista resta un’ultima possibilità: usare il linguaggio verbale e quindi un titolo: Debussy, “La mer”… È ovvio che non è la riproduzione del suono del mare, ma il suo modo di pensare il mare. Mi viene in mente un pezzo che ho chiamato “Le memorie dalla scogliera”… I musicisti non hanno altro».

 

C’è il testo cantato, no?

 

«Quando c’è il testo cantato, e arriviamo al famoso discorso dell’associazione tra la musica e la parola, la parola inevitabilmente ti porta sul piano più cosciente, non si scappa. Il titolo può essere un suggerimento: ti dà un’immagine eventualmente anche prima dell’ascolto, che poi tu puoi trovare corrispondente o meno. Il testo, invece, racconta qualcosa e lo fa in una maniera più cosciente. Se si sente “all’alba vincerò”, si capisce che quello deve affrontare un’impresa! Pensa invece a quando ascoltiamo una canzone di cui non capiamo una sola parola perché è in una lingua che non conosciamo… Mi ricordo quando da ragazzino ascoltavo “Highway Star” dei Deep Purple: solo quando ho cominciato a capire l’inglese mi sono reso conto che parlava di una macchina! E io che credevo chissà che cosa».

 

Un testo comprensibile dà il significato, mentre con la musica si cerca il senso?

 

«Esatto. La musica non ti dà l’immagine precisa che invece il testo ti dà. A parte il fatto che se tu scrivi la musica partendo dal testo è diverso che scrivere il testo sulla musica, anche se in tutti e due i casi ci deve essere una fusione. Poi ci sono compositori che, nonostante il testo, riescono comunque a far prevalere la musica: cioè la loro musica è talmente musica che è il testo a passare in secondo piano! Il “Don Giovanni” di Mozart, per esempio: c’è la prima scena in cui Donna Anna esordisce cantando “Non sperar se non m’uccidi ch’io ti lasci fuggir mai…” ed è una cosa drammaticissima! Ma sotto c’è una musica talmente mozartiana, che se le parole fossero sostituite da una sezione d’archi, ci sarebbe comunque un fortissimo impatto musicale… Mettiamola così: è come se ci fossero due livelli richiesti di percezione. Uno, quello cosciente, che segue il testo. E l’altro, se vuoi non cosciente, che segue la musica. O meglio che si emoziona, appunto».

 

Questo dipende anche dalla fantasia dell’ascoltatore…

 

«Si può dire che la sua reazione può essere un’interpretazione. Ed è chiaro che la sua percezione può anche essere discutibile. C’è una scena in “Fantasia” di Walt Disney in cui hanno associato fantasmi e scheletri a “Una notte sul Monte Calvo” di Mussorgskij, che a mio personale e umile giudizio tutto c’ha tranne questo aspetto demoniaco, con i mostri… E questa cos’è se non un’interpretazione? Cioè: uno fa un’immagine da un suono e nel caso di Walt Disney fa un’immagine discutibile. È capitato anche a me quando uscì “Risonanze”: uno (e per fortuna uno solo…) è venuto a dirmi “ah, bellissimo! Sai che starebbe bene con i film di Dario Argento?”. Siccome io ho scritto quella musica ispirato da tutt’altro, dovrei forse farla io allora un’interpretazione e dire: guarda quanto è cattolico questo che di fronte a un movimento che possa sembrare in qualche maniera “sessuato”, lo associa al mostro… Anche quella era una percezione sbagliata, insomma. Certo che un’umanità più sana, ascolterebbe meglio; sarebbe più in grado di distinguere la musica comunicativa dalla musica finta, di intrattenimento».

 

C’entra la sanità mentale anche con la musica?

 

«È chiaro che quando una persona mi dice che non capisce niente di musica gli rispondo che la musica non si deve capire, ma si deve sentire. Se uno invece mi dice che la musica non gli piace e non l’ascolta mai, io un brivido ce l’ho: è come se mi stesse dicendo qualcosa su se stesso. È fortemente sospetto. Una volta un amico psichiatra mi disse una cosa che mi ha lasciato sconcertato e che io non ho mai approfondito perché sono cose appunto da psichiatri; parlando di malati mentali gravi, mi diceva che con le immagini hanno dei grossi problemi, tant’è che spaccano magari i televisori. Il legame più forte che mantengono è con la musica: magari li vedi girare tutto il giorno con le cuffiette ad ascoltare musica. Non saprei dire se per questo la musica sia legata alla nascita, a quel qualcosa di sano che è patrimonio di tutti gli esseri umani…».

 

Non a caso ci siamo arrivati dicendo del preverbale, della regressione… Che attraverso la musica si possa conservare una possibilità di guarigione?

 

«Qualcuno un’ipotesi di questo tipo l’ha fatta. E sono tutti d’accordo nel credere che la musica arrivi un po’ più in profondità; anche se questa cosa non è dichiarata. Il perché ce lo dovrebbe spiegare lo psichiatra, io non arrivo a capirlo da solo. La vivo come esperienza, ma non so spiegarla. Come l’orgasmo è difficile da spiegare, con la musica è la stessa cosa: posso dire del mio vissuto con la musica, so che certe cose succedono ma non so perché».

 

Hai insistito molto sulla musica strumentale come musica pura, tutta emozione. Ti faccio un’ultima domanda, se vuoi provocatoria. Che mi dici a proposito del fatto che spesso il suono dello strumento tende a imitare la voce umana?

 

«È una vecchia credenza… La voce umana è la voce umana, gli strumenti sono tutt’altro che imitazioni; forse la cosa interessante potrebbe essere pensare che con gli strumenti si può comunicare un’umanità, un “essere umani”, ma questa non credo si possa definire “imitazione”, semmai rappresentazione o… trasformazione».

 

(Nuova Agenzia Radicale, 05/07/04) © Paolo Izzo

 

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