Caro Camon,
due o tre riflessioni sull’eros
Quella che segue è una mia lettera allo
scrittore Ferdinando Camon, pubblicata a febbraio su
Agenzia Radicale. Subito dopo potete leggere l’articolo di Camon
cui si fa riferimento.
Caro Camon,
le scrivo due o tre riflessioni a margine del suo “La follia che ha le
radici dietro casa”: da scrittore a scrittore.
Sono d’accordo con la “diagnosi” di follia – anche se troppe sono le accezioni
di questo termine – e più ancora con il legare essa follia a una presunta
normalità, a un comportamento apparentemente ineccepibile e quindi
insospettabile, fino al “non rendersi conto” che è tipico degli schizofrenici,
mi viene detto; sono d’accordo anche con il suo ritenere forti le analogie tra
i delitti di Terrazzo e quelli di Custoza e dintorni,
nonché tra gli esecutori eventuali o accertati di tali delitti.
Ma forse andrebbe spesa qualche riga in più sul fatto che a morire siano
delle donne e a uccidere degli uomini...
Infatti ciò che mi convince meno, nel suo scritto, è la parola “eros” come lei
la utilizza, di tanto in tanto. Perché non appena sento questa parola a me
viene naturalmente da legarla a quell’altra parola -
spesso fraintesa, gliene do atto - che suona come: desiderio. Allora vado più a
fondo, nella memoria forse, ma ancor di più nella memoria inconscia: trovo
l’immagine di una donna e di un uomo che si desiderano e che si amano, fanno
l’amore. Insomma, magari sbaglio io, ma “eros” mi fa pensare direttamente al
rapporto, sano, tra uomo e donna.
Quando invece ritorno in superficie, a questo foglio che ho tra le mani,
trovo altre parole che suonano come: assassinio, follia, cadaveri, denaro,
prostitute… Non vedo il nesso tra amore e morte, non l’ho mai compreso; non lo
vedo tra eros e schizofrenia, né tra desiderio e prostituzione. In questi
tragici episodi che la cronaca ci porta come un’odiosa missiva, leggo semmai
masturbazione, rabbia, anaffettività, ma soprattutto vedo un’omosessualità
latente che vuole annullare, distruggere l’immagine e l’identità delle donne.
Il tutto, all’alba del terzo millennio (!), nell’indifferenza complice di una
società tutta improntata su detta omosessualità e razionalità. Forse è qui il
problema: nella donna vissuta come un oggetto da comprare, nell’atto sessuale
teorizzato come uno sfogo di istinti animaleschi, nel desiderio sessuale
confuso con una bramosia di “scarica”, che acceca e rende pazzi prima e
assassini poi… In questa visione la donna muore, psichicamente prima ancora che
fisicamente. Purtroppo.
La sua frase “è come se l’eros stabilisse un’intesa che scavalca
continenti e oceani, annulla le separazioni di lingua, cultura, religione,
civiltà” è vera e bellissima, ma fallace in questo contesto. Sarebbe
straordinaria per un romanzo, dove però non sussista l’eterno rapporto malato
che si fonda sul “mors tua, vita mea”.
Glielo dico da uomo a uomo.
(Roma, 10 febbraio 2005)
Paolo Izzo
Il serial killer veronese
Questa follia che ha le radici dietro
casa
(da «L'Arena» del 9 Febbraio 2005)
di Ferdinando Camon
Se le cose stanno come le indagini mostrano, allora il serial killer di Custoza ha gli stessi caratteri del serial killer di Terrazzo
e di tutti quelli dei paesi di campagna, e sono caratteri contraddittori: la
crudeltà, l’ingenuità, la maniacalità sessuale. Vivono in una società e in una
cultura che credevamo (a torto) tranquilla, separata, chiusa nella tradizione e
nella conservazione. Ma ormai non c’è più nulla di separato e tranquillo. Non
certo le campagne. Proprio perché erano le più conservatrici, sono le più
scombussolate dall’invasione di culture e di costumi di cui ignoravano perfino
l’esistenza. Non reggono l’urto. E crollano. Sia il killer di Terrazzo sia
questo di Custoza (se è davvero colui che le indagini
adesso indicano) uccidevano prostitute. Più esattamente, prostitute immigrate.
Il killer di Terrazzo, donne dell’Est europeo; questo di Custoza,
del Sudamerica. L’invasione delle prostitute, nelle
miti campagne delle Venezie, è l’evento che più di
ogni altro ha sconquassato i costumi. Le campagne erano segnate da secoli dalla
repressione sessuale e l’arrivo delle prostitute straniere ha costituito un
doppio richiamo, il richiamo dell’eros e dell’eros esotico. A Padova c’è un
quartiere, famoso nel mondo, dove le prostitute nigeriane hanno comprato i loro
appartamentini nel giro di un anno o due. Qualcuno ha fatto i conti:
guadagnavano da uno a due milioni di lire per notte. Anche qui c’è una
clientela di de-repressi, ai quali avere donne esotiche dà l’impressione di
diventare padroni del mondo. Qualcuno di questi clienti lo ha confessato: nella
brasiliana, nella slava o nella nigeriana tutto è stordente, soprattutto la
differenza linguistica, è come se l’eros stabilisse un’intesa che scavalca
continenti e oceani, annulla le separazioni di lingua, cultura, religione,
civiltà.
Se
questo è vero per i clienti delle lucciole di una città di 250mila abitanti,
figurarsi per i clienti che vivono in campagna. Non sanno cosa gli capita, non
si rendono conto delle avventure in cui si tuffano, e così finiscono, tutti,
per costruirsi una seconda vita, incomunicante e
inconciliabile con la precedente: restano figli o mariti o lavoratori
insospettabili per i genitori e le mogli, ma in ore separate e in luoghi
separati vivono questa seconda esistenza, nella quale si comportano da pazzi.
Come tali, non si rendono conto di quel che fanno. «Io non ho ucciso le mie
donne», protestava Stevanin, «erano loro che
morivano». Lui si limitava a stringergli il collo. Quando gli hanno dato
l’ergastolo, ha chinato la testa incredulo: «Non mi hanno capito». Il killer di
Custoza, per strangolare le vittime, usava una
sciarpa. Alla crudeltà abbinano una stupefacente ingenuità. Stevanin
seppelliva le vittime dietro casa, son bastati
quattro colpi di vanga per scoprire i cadaveri. Lui stava vicino all’Adige, sui
prati dormivano greggi di pecore in transumanza. Ha lasciato scappare l’ultima
donna perché gli portasse trenta milioni.
Questo
di Custoza chiamava al telefono le vittime come un
ossesso, fino all’ora dell’uccisione. Ha rubato di tutto, specialmente denaro.
Fuggito e braccato, ha perfino telefonato a casa, voleva sentire la voce dei
figli: è come se dicesse alla polizia «venite a prendermi». Lo hanno preso,
aspettiamo le conclusioni del processo. Ma non aspettiamoci confessioni:
potrebbero confessare se capissero cosa hanno fatto, dove hanno fatto una
cattiva scelta. Ma non lo sanno: il loro mondo, il mondo delle campagne, è
stato invaso, travolto e spazzato via, e loro sono sepolti sotto le rovine. Stevanin comincia a dar segni di pentimento e far progetti
di socializzazione adesso. Sono passati dieci anni. Dieci anni per tornare in
superficie, e rivedere l’umanità.
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