Si
torna con i piedi per terra
Dall’imbarco all’atterraggio
Vizi e manie degli italiani che rientrano a casa
Il controesodo aereo visto dalla cabina di pilotaggio
Il check-in. Ore 5.30, aeroporto di una città di mare. Fuori è notte, ma qui
già pullula di turisti variopinti che tra poco si trasformeranno in passeggeri.
Rubizzi come salamandre o già in via di spellamento, i loro carrelli sovrabbondano di bagagli e la
frase standard è “questa è la mia borsa a mano”, mentre con il dito indicano
uno zaino grande come una persona. Le numerose buste di plastica contengono
altre buste, come matrioske di
souvenir. L’impiegato che tenterà di arginare il flusso di pesi e ingombri, viene subissato di giustificazioni patetiche: “Mia madre sta
male e deve prendere le medicine, che sono tutte in questa borsa”, “c’è
l’occorrente per cambiare il bambino qui dentro e la sua copertina, il golfino”.
Inizia così l’odissea di rientro.
L’imbarco. Abbigliamento da scalata tra le
nuvole, voce molto alta, ammiccamenti e frasi di spirito: “Eh, ma non ci sono le
hostess?”, “Il capitano è uno bravo?”, “Avete controllato l’aereo? Funziona
tutto?”. All’imbarco, è un vero arrembaggio. Prima per prendere
possesso delle cappelliere e per chiuderle mezze vuote: “Se viene qualcuno e
mette la sua borsa, mi si schiacciano i cannoli!”, poi per cambiare posto:
anche se al check-in sono riusciti, stranamente, a tenere unite le famiglie, c’è
chi vuole passare da poppa a prua, pensando che all’arrivo si scenderà davanti.
Così non è, ma vallo a spiegare. Spesso si raggiunge l’aerostazione con l’autobus,
che prima di essere pieno zeppo non c’è verso di
muoverlo, fidatevi. Anche perché passerà una buona mezz’ora -
quando va bene - prima di riavere il bagaglio da stiva. Chi è rassegnato
ad occupare le ultime file, comunque, ci arriverà di
sicuro lamentando: “Mi avete dato il posto in bagno”.
Il volo. Gli steward sudano impassibili e, meno
impassibili, tentano di comprimere ogni volume
inanimato, di far sedere persone animatissime e di far spegnere i cellulari. Le
signore stringono i braccioli, senza che si sia ancora fatto un metro, le
cinture sono al limite dello strozzamento, un certo
silenzio si fa spazio nell’aereo stracolmo e chi ha il coraggio di chiedere un
bicchier d’acqua in questa fase è di sicuro un passeggero… navigato. Una voce
gracchia alcune istruzioni che saranno disattese e qualcuno ricorda di aver
lasciato il telefonino acceso nell’ultimo marsupio della sua borsa-matrioska;
le hostess si preparano per il “briefing di sicurezza”. Parla il capocabina e compaiono maschere ossigeno e giubbotti
salvagente, a evocare terribili scenari di atterraggi di
fortuna e conseguenti gesti scaramantici, plateali e ridanciani. Tutti, ad ogni
modo, seguono il briefing con attenzione, come al cinema, ma con i colli più
tesi o inclinati sul corridoio. Finalmente si vola. Biscotti o salatini, gli
stessi da 60 anni, salviette rinfrescanti se ci sono, richieste di bevande mai
sentite prima: chi torna dai villaggi-vacanza rivuole i suoi cocktail esotici.
La temperatura raggiunge il gelo siberiano, così come a terra
si attestava su livelli sahariani. Chi prima si sventolava adesso chiede
coperte e lo steward assicura che parlerà col pilota per abbassare il
condizionamento. Approfittando, un temerario chiede: “Possiamo visitare la cabina
di pilotaggio?”. Si potrebbe spiegar loro che così fanno, in genere, i
terroristi. Meglio dire, semplicemente, di no.
L’arrivo. Non è raro che scoppi l’applauso: simpatica
consuetudine sostituita, col tempo, da pessime abitudini. Come
i precoci sms, in frenata, con scatto dalle poltrone
durante il rullaggio. Si finisce così, tutti in piedi a soffrire per
lunghi caldi minuti. Attesa che sfocia in accuse alla
compagnia, perfino minacce: “Vi denuncio per sequestro di persona”. Segno
che la vacanza è, davvero, finita.
Paolo Boccaccio (Left, 31/08/07)
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