A scuola di linguaggio da “cattivi
Maestri”
Intervista a Annio G. Stasi e Mery Tortolini
L’Ospite e l’Arlecchina (Ibiskos
Editrice di A. Risolo, pp. 190) è un romanzo molto poetico e altrettanto
complesso. Straripante di suggestioni e di spunti teorici, viene da dire che
sia quasi un gioco letterario, ma un gioco serissimo, perché le tematiche
affrontate sono il linguaggio, lo scrivere, le immagini e come questi elementi
vadano a segnare il rapporto tra gli esseri umani. L’autore, Annio Gioacchino
Stasi, è linguista e sceneggiatore e da più di un decennio conduce, presso
l’Università “La Sapienza” di Roma, un corso sperimentale detto “Laboratorio di
scrittura creativa”. Da qualche anno si avvale della partecipazione al Laboratorio
della sua compagna pittrice, Mery Tortolini e con lei
ha sviluppato una metodologia di composizione narrativa e didattica
completamente inedita: partire dal segno pittorico astratto per fare un
linguaggio nuovo, diverso. Tra gli altri risultati della felice collaborazione
tra i due, vi è questo libro: una serie di stanze comunicanti, una dentro
l’altra come quelle dei palazzi reali, dove il particolare linguaggio di Annio
Stasi racconta storie d’amore, di ricerca, di ribellione ai falsi miti, e dove
di tanto in tanto affiorano, a cominciare dalla copertina, gli “intagli” della Tortolini. Il lettore, se si lascia andare al fluttuare
delle parole e delle immagini e non si sforza di cercare una trama logica,
razionale, ne riceve in cambio un dono raro: il ricordo, direi non cosciente,
di immagini che permangono nella mente come sogni nel primo mattino. Tanto che,
una volta finito di leggerlo, si può riprendere il libro e per ritrovare quelle immagini aprirlo
alla pagina giusta, quasi ad occhi chiusi, quasi “a tentoni”, ma senza
casualità, piuttosto con un “sentire”…
Il 19 gennaio
scorso, sono andato a trovarli nella loro bella casa, ci siamo seduti intorno a
un tavolo, circondati dai quadri di lei e ci siamo messi a parlare del loro
lavoro e de L’Ospite e l’Arlecchina. Ne è venuta fuori un’intervista piuttosto
insolita, a tre voci.
Come del
resto è insolita l’idea di un uomo che crea parole di fronte a una donna che
crea immagini… Siamo partiti proprio da qui:
Annio Stasi. Alla base c’è un dato di realtà, anche se è una strana realtà: il
Laboratorio che un uomo e una donna conducono all’Università, mettendo in
rapporto immagini non figurative e scrittura. Poi c’è un dato di ricerca: se
esiste una relazione tra chi conduce questo laboratorio e il gruppo di studenti
che partecipano. Ci deve essere una motivazione più profonda, oltre la
constatazione dei fatti, e questa riguarda proprio lo scrivere e che cosa
significa scrivere; che senso ha e che tipo di scrittura si produce nel momento
in cui si ha o si prova ad avere un rapporto con una donna e con un gruppo. Non
solo: con una donna che ha un linguaggio e in particolare un linguaggio di
immagini, ma anche di scrittura…
Mery Tortolini. Normalmente si
lega la scrittura o la rappresentazione a momenti tristi della propria vita.
Cioè: scrivo perché sono depresso, perché mi serve per riflettere su me stesso
e per isolarmi dal mondo o perché ho avuto una delusione d’amore. Mi piace
invece pensare che nel nostro caso è andata in maniera differente…
La scrittura,
dunque, come rapporto uomo donna e come reazione a qualcosa di positivo. C’è
uno stimolo creativo e allora arriva una reazione creativa, il cui esito non è…
distruttivo. È così?
M. T. Sì. L’immagine
dell’artista è sempre stata associata all’immagine del folle e quindi alla
patologia, anche se poi alla follia si dà una valenza romantica, positiva. La
ricerca che noi seguiamo dice esattamente il contrario: che la creatività è
maggiore quando si è vinta la malattia e che la possibilità di avere un rapporto
quantomeno decente con l’essere umano diverso, con gli altri, deriva da questa
capacità di mettersi in gioco, anche rappresentando.
Che cosa sono
queste “immagini non figurative”, che voi chiamate astratte?
M. T. Il termine è
terribile, in effetti. Perché astratte significa anche non concrete e invece mi
auguro che le mie siano concrete… Lontane dalla realtà, ma ancorate ad essa.
Questa è l’idea che ho della rappresentazione: raccontare qualcosa che ci
riguardi come esseri umani e che ci aiuti a formulare dei pensieri, ovviamente
non normali, ma non per questo folli. Forse, perché no, nuovi? L’astratto in
questo senso ci permette di non imporre qualcosa di immediatamente
riconoscibile, lascia che l’altro sia libero! E la cosa più bella che chi
rappresenta si aspetta è che l’altro abbia una propria immagine da raccontare.
Se qualcuno guarda un mio quadro e dice qualcosa a cui io non avevo pensato, mi
fa un regalo enorme. Se invece vediamo entrambi, chessò,
una donna, forse non c’è molto da raccontarsi…
Per risolvere la
questione, basterebbe dire irrazionale invece che astratto? O è ancora
insufficiente?
A. S. Noi cerchiamo la formazione di un linguaggio che non sia normalizzato,
che si discosti da una norma ma che non cada nella patologia, proponendo invece
un pensiero che fa ricerca nonostante un contesto culturale generale. Si prova
a scoprire, a vedere qualcosa che non è visibile. Allora possiamo dire che
questo è un romanzo irrazionale: lo è nel modo in cui è stato scritto, il
rapporto e i rapporti attraverso i quali è stato scritto. Questo romanzo deriva
anche da una dimensione collettiva: in questi anni ci siamo confrontati con le
immagini non figurative, con gli scritti e con la storia di centinaia di
studenti.
E che cosa è
avvenuto in questo confronto?
A. S. Che bisognava rispondere! E forse l’intento della scrittura è
inventare una risposta, che tra l’altro non si vede. Tutto questo non può
nascere dal nulla, nasce evidentemente da chi si propone come soggetto che fa
linguaggio, ma che inevitabilmente si deve legare al confronto con il gruppo.
Il linguaggio è un’espressione e in quanto tale è un fatto individuale. Ma è
un’espressione verso il gruppo umano, quindi verso una storia del gruppo umano.
Nel romanzo si parla di più filoni, ma niente è stato pensato prima: ci veniva
richiesto dalle persone che facevano con noi il laboratorio, anche in maniera
implicita, facendo per esempio un disegno! In questo senso l’astrazione ha un
legame con un’immagine che si muove nel tempo… Ecco, questo tipo di scrittura
prova ad essere un movimento temporale narrativo che rompe con una tradizione
aristotelica del racconto, che ha una sua organicità nel controllare quel
pensiero che abbiamo detto irrazionale…
M. T. È un discorso
anche su come si compone. Abbiamo citato Aristotele: corpo vivo, corpo morto… È
chiaro che qui si azzarda, però una struttura razionale è anche combinatoria,
forse matematica, sicuramente rigida. Cioè,
un mettere insieme in successione alcune cose trovando il giusto modo di
combinarle, come pure comporre un
quadro: io metto il giallo qui in alto poi lo richiamo sotto perché venga
bilanciato… ma nella mia esperienza diretta coi quadri, non funziona così.
Funziona che ti metti davanti a una tela e vedi che cosa viene fuori, senza
stare a pensare che il giallo dovrà bilanciarsi col giallo… E si scopre che
questa irrazionalità, laddove non è caos, compone. Noi non temiamo il movimento
e la risposta, reazione che è pure movimento!
E si scopre che,
pur avendo una struttura in continuo movimento, pur trasformandosi di volta in
volta, questo romanzo che diciamo irrazionale riesce a farsi discorso compiuto…
A. S. Vedi, c’è movimento anche nella domanda che tu ci poni. La risposta
potrebbe essere di tipo narrativo e a questo punto potrebbe partire dalle dita
che tu hai davanti alla bocca mentre parli e formulare un’immagine da
raccontare, che abbia relazione con il suono, con il movimento delle dita…
Oppure potrei riprendere un’ipotesi di tipo teorico su quanto una reazione
all’interno di un particolare processo di natura regressiva, che non è
patologia, possa portare in sé più movimenti e arrivare a una formulazione di
linguaggio articolato che non si articola in successione, secondo una logica
appunto aristotelica che noi rifiutiamo, ma secondo una modalità del tempo di
cui stiamo cercando di capire qualcosa. Insomma, noi partiamo dal rifiuto di
alcune cose e quello che verrà non lo sappiamo: dobbiamo fare l’epoché, intesa come astenersi dal giudizio, come diceva
Sesto Empirico…
M. T. … con la certezza
di un’origine comune!
Meglio di
Aristotele è allora Ferdinand de Saussure,
come viene utilizzato nel romanzo: ritieni che de Saussure
abbia teorizzato qualcosa del genere, abbia avuto delle intuizioni in tal
senso?
A. S. All’interno del romanzo ci sono due citazioni in particolare. Non
credo che sia stato mai utilizzato il Corso
di linguistica generale per farne la parte di un racconto! Perché de Saussure? Perché, come viene detto nel libro, c’è questa
affascinante vicenda del più grande studioso del linguaggio del Novecento che
di fatto non è riuscito a scrivere del suo oggetto d’amore: il Corso di linguistica generale è in
realtà un’elaborazione postuma fatta da Bally e Sechehaye basandosi sugli appunti degli studenti di de Saussure e su rare note autografe. Opera di cui De Mauro ha
elaborato una rilettura critica divenuta oramai parte integrante del testo.
M. T. Come è accaduto per Paul Klee!
Con la sua Teoria della forma e della
figurazione: fu una sua studentessa, Petra Petitpierre, a raccogliere i testi di Klee,
quasi a conferma che dopo e nel mentre si cerca un metodo, e si elabora una
teoria, si fa prassi; ci si confronta. Forse perché non è semplice arrivare ad
un certo tipo di scrittura utilizzando un linguaggio troppo spesso
normalizzato…
A. S. La seconda citazione, più teorica, riprende quanto a un certo punto de
Saussure dice, vuoi per l’influsso anche di un suo
rapporto con la cultura dell’epoca, a proposito dell’arbitrarietà come elemento
dinamico che modifica una struttura. E paragona la lingua ad una partita a
scacchi: «Perché la partita a scacchi rassomigliasse in tutto e per tutto al
gioco della lingua, bisognerebbe supporre un giocatore incosciente o stupido». Ora, lo stupido è un personaggio
che aleggia sempre, si pensi a L’idiota
di Dostoevskji; l’uomo che entra in una situazione e
ne modifica gli elementi strutturali è un ingenuo, non sa a che cosa va
incontro. È una figura che rinuncia all’identità sociale e con cui dobbiamo
confrontarci…
Chi è lo sciocco ne
L’Ospite e l’Arlecchina?
A. S. Nel nostro caso lo sciocco è un uomo senza vesti, o che raccoglie
quelle che gli altri lasciano e che sta insieme a una donna che in realtà è un’Arlecchina. E anche qui possiamo rubare qualcosa a de Saussurre che nelle varie metafore sulla lingua ne tira
fuori una interessante «…è un vestito coperto di toppe fatte, nel corso del
tempo, con la sua stessa stoffa». I due sono costretti, loro malgrado, ad
accettare una sfida su una scacchiera con chi invece ha costruito l’identità
sulle regole: il Re e la Regina. È chiaro, le risonanze sono tante… A noi è
sembrato giusto, e lo facciamo da anni, porre delle questioni teoriche
attraverso il linguaggio rappresentativo per poi ritornare alle formulazioni
teoriche. Cioè stabilire in che modo il linguaggio della rappresentazione non
sia qualcosa di evasivo, ma anzi si ponga probabilmente come un passaggio
all’interno di un’elaborazione di pensiero: perciò noi scriviamo, disegniamo e
proviamo anche a farci qualche pensata di tipo teorico. Sono vari passaggi: il
pensiero non è un dato monolitico. Ed è chiaro che noi su questo siamo
influenzati da certi… “cattivi Maestri”.
A questo punto
dovrei formulare io “un’immagine da raccontare”, partendo da te che dici
“cattivi Maestri” e getti lo sguardo sulla copertina de «Il Sogno della
Farfalla», la rivista di Massimo Fagioli…
A. S. Per fortuna esistono dei veri cattivi Maestri come Fagioli, cioè
persone che non vogliono insegnare nulla, non vogliono allievi, ma portano
avanti personalmente, sulla propria pelle, discorsi teorici enormi. Uomini che
non accettano di uniformarsi a delle norme di pensiero, perché di fatto queste
norme possono uccidere il linguaggio. Questo è un altro tema del romanzo e
riguarda la storia del linguaggio occidentale…
Questo Maestro
compare anche nel romanzo, almeno nella fase della sua formazione: il tuo
Giovane Medico non è né l’Ospite né l’Arlecchina: è
un personaggio a sé stante, un terzo… incomodo.
A. S. Eh sì. Questo terzo… incomodo è un’immagine che è venuta fuori in
maniera piuttosto naturale perché, pur non citando mai in maniera diretta
l’opera di Fagioli, all’interno del Laboratorio in realtà ci sono domande,
talmente esplicite, che ci hanno fatto venire la necessità di provare a
raccontare un’altra storia che è di questi tempi, di questi ultimi decenni e a
cui prendiamo parte con quelle che sono le nostre capacità. Mi è sembrato
giusto proporre una delle migliaia di possibili narrazioni che possono venire
fuori da una vicenda così complessa e importante come quella dell’Analisi
collettiva. Tra l’altro Massimo Fagioli venne all’Università a parlarci del
linguaggio, sulla base del saggio che aveva allora scritto “Se avessi disegnato
una donna” [in Massimo Fagioli, Bambino
donna e trasformazione dell’uomo, Nuove Edizioni Romane, ed. 1996 e
successive, ndr.] in cui si parla, tra l’altro, del
rapporto tra immagine e scrittura [cfr. “Immagine e
scrittura del silenzio” in T. De Mauro, P. Pedace, A. G. Stasi (a cura di), Teoria e pratica della scrittura creativa – vol. 2, Controluce,
1999]. Quindi effettivamente il Maestro ha portato dei frutti: altri sciocchi
sprovveduti che hanno fatto questo Laboratorio all’interno de “La Sapienza”… E
bisogna dire che sia De Mauro prima che Asor Rosa
poi, così come altri docenti, hanno accettato il nostro lavoro di ricerca.
Fatto sta che attualmente è un modulo didattico riconosciuto e molto
frequentato nella facoltà di Scienze Umanistiche.
È chiaro che
incontrandovi mi venga molto banalmente da identificarvi con l’Ospite e con l’Arlecchina, però in realtà la figura dell’Autore c’è, nel
libro, così come c’è la Lei… Visto che abbiamo citato la teoria di Fagioli, che
ci sia un discorso di “immagine interna”?
Annio Stasi. Io faccio una netta separazione, un distanziare la persona dalla voce
del personaggio… Perché credo che questo dia maggiore libertà all’autore e
anche al lettore…
Mery Tortolini. Anche se i
personaggi sono entrambi indefiniti, tanto che la prima risposta che mi veniva
da dare è stata: “magari!”. Cioè riuscire ad essere e quindi a rappresentare
sempre immagini indefinite: l’idea dell’Arlecchina è
la donna colorata che cambia nel tempo. Come immagine di rappresentazione l’ho
cominciata a disegnare, pensare, da circa tre anni, poi è emersa ed è stata
proposta all’interno del laboratorio… Questo forse richiama un bel pensiero sul
nesso tra realizzazione nella realtà e rappresentazione di una immagine. Il
vestito colorato di Arlecchina poi, nel romanzo, si trasforma in un aquilone che
prende il volo, che rimanda ad un altro tipo di immagine ancora, e che deriva
anch’esso da un’idea nata realizzando un quadro. E qui occorre ricordare di
nuovo come la partecipazione all’Analisi collettiva ci permetta di provare ad
affrontare, per quelle che sono le nostre realtà, alcune importanti tematiche
di questa ricerca.
A. S. La mia esigenza è quella di scomparire. Cioè nello scrivere non parlo
di me; compongo una voce che racconta delle storie. Ora non so se questa sia
una necessità dello scrittore: perdere il più possibile la fisionomia per
arrivare alla voce e che questa voce racconti la storia di personaggi che sono
all’interno di una storia più grande. In molti passaggi del libro si parla
anche di ribellioni, con quadri sintetici e la voce, a questo punto l’Ospite, è
forse la modalità che io ho trovato per poter entrare e uscire liberamente da
qualsiasi luogo, da qualsiasi tempo, da qualsiasi spazio e da qualsiasi
rapporto. Perché dal momento in cui io sono Ospite, sono libero di essere chi
voglio e chi mi accoglie può essere libero di vedermi come meglio crede. Nel
fare questo, ovviamente, mi porto dietro un’immagine che è una donna, dieci,
cento donne, ma è anche un uomo, dieci, cento uomini…
I quadri storici
del romanzo sono anch’essi molto indefiniti. Nelle immagini dei guerrieri,
delle lotte si intravedono il ’68, Lotta Continua… Ma c’è un momento del libro
in cui sembra di essere in mezzo a una folla di persone comuni di cui si riesce
magicamente a carpire i pensieri. C’è un legame tra le figure dei guerrieri e i
pensieri “ascoltati” della gente comune?
M. T. Forse è una
questione di recettività… Mentre tu parlavi di guerrieri a me venivano in mente
anche immagini diverse, tipo il funambolo, il viandante, che rischiano e
combattono in un altro modo. L’ascolto, la capacità di ascoltare le voci,
rannicchiati magari ai margini di una strada, quindi senza potere, senza essere
notati e visti, ha in sé una forza enorme che chi rappresenta deve reggere,
tenere… Possiamo chiamarla sensibilità che in questo caso si traduce in una
capacità di incidere, di scrivere, di intagliare immagini, che non è violenta.
Perché trasforma un pezzo di carta colorato, inutile in qualcosa di altrettanto
inutile, ma forse necessario non solo per sé ma anche per gli altri.
Ribellarsi, cioè, a quell’idea aristotelica che
pensare, scrivere, rappresentare sia in fondo uccidere il proprio oggetto
d’amore. Nel pensiero razionale, l’idea di composizione passa attraverso un
criterio dato di sequenza, di sintesi, che non prevede la capacità di
trasformare qualcosa. Se invece io rileggo un classico e lo trovo attuale, che
cos’è questa capacità di riattualizzare, di ricreare
se non una mia capacità reattiva? Deve avere a che fare con – possiamo
azzardare, ovviamente rubando alla citata ricerca - la trasformazione, cioè con
questa possibilità di passare da una cosa a un’altra perdendo apparentemente la
definizione, la riconoscibilità. Sparisce un
precedente e compare un presente, ricreando.
Allora si pone un
altro quesito: se nel libro che leggiamo andiamo alla ricerca di una memoria
cosciente o di una memoria non cosciente. Perché io non mi ricordo i fatti
precisi dell’ultimo best seller e mi ricordo invece o mi permane traccia di
passaggi de L’Ospite e l’Arlecchina? Eppure
questi non hanno un significato materiale, ma soltanto un senso che ho
percepito io…
M. T. Mi veniva da
pensare a una sorta di capriola. È come se qui si andasse immediatamente a un
senso, cioè viene offerta direttamente una composizione nata in un certo modo
ed in cui forse rientra il rapporto uomo
donna, nonché il rapporto con i ragazzi del laboratorio. La domanda può essere:
come si fa a scrivere un romanzo interamente poetico? La forma di questo
romanzo è direttamente questa. In altri scritti quella che dici tu, è una
capacità sia dello scrittore, ma anche umana, di spingersi verso il senso e di
spingere il lettore a trovarne uno. Questa ricerca di senso dà alla scrittura
la possibilità di rimanere nel tempo. La scrittura ha un suo movimento interno
che rivive grazie al lettore che si prende la briga di farci un rapporto
attivo, vivo a seconda delle sue immagini, della sua affettività e capacità di
entrarci in relazione. Anche chiudendo poi il libro e facendo qualcos’altro:
scrivere a sua volta, fare un quadro, fare un pensiero nuovo. Poter esprimere
in reazione qualcos’altro per il semplice piacere di farlo, per se stessi, per
niente…
A. S. In riferimento a quello che riguarda la rappresentazione, la memoria
cosciente nella poetica di Aristotele è quella che struttura la cosiddetta
catarsi e il meccanismo di identificazione, che in realtà conduce la
stimolazione, reazione, formazione delle immagini del lettore all’interno di
una chiusura, in una figura o in forme stabili, ripetitive. Partendo da una
riflessione che nasceva da Il Sogno
della Farfalla [stavolta si intende la sceneggiatura di Massimo Fagioli
da cui Marco Bellocchio ha realizzato l’omonimo film, ndr.],
e che ha visto il 3 Marzo del 1995 Bellocchio, Fagioli e De Mauro interloquire
insieme a un folto pubblico di studenti [cfr. “Le
due memorie” in T. De Mauro, P. Pedace e A. G. Stasi (a cura di), Teoria e pratica della scrittura creativa - vol. 1,
Controluce, 1996], è maturata negli anni un altro tipo di scrittura.
Nasce da una separazione, una ricerca di separazione da una tradizione di
linguaggio e la scrittura che nasce dal rapporto e dalle immagini tende a
stimolare a movimentare un’altra forma di memoria che in realtà non dà figure,
ma forme instabili in movimento. Queste hanno una capacità di mettersi in
rapporto che è diversa, più umana, se vuoi. Si muovono in una comunicazione di
senso e in questa comunicazione si perde la definizione del contesto, ma non
per questo si perde la definizione di se stessi! Cioè si è “in rapporto”… C’è
questa dinamica che è solo umana per cui il gruppo umano, l’essere umano, per
un motivo connesso alla propria identità individuale e sociale, ha la necessità
di compiere una separazione, per muovere il pensiero che è linguaggio della
rappresentazione, ha l’esigenza di separarsi dal presente contingente e creare
uno spazio e tempo specifici: quelli della rappresentazione. Ed è quello che
noi proviamo a ricreare nel laboratorio.
M. T. E forse questa
idea della separazione, che a questo
punto non ha più un’accezione negativa, è sempre trasformazione…
Torniamo alle
ribellioni. Nel libro, di fondo, ce ne sono due: quella vissuta come guerra,
scontro fisico e quella dell’uomo steso in mezzo al grano in un paese dove gli
altri uomini non ci sono più perché appunto sono tutti in guerra. Quest’uomo si trova da solo con donne che tentano di
sedurlo. Lo scontro è con loro…
A. S. Ho recuperato, senza volerlo, un’immagine storica: quella del guerriero
nomade, del barbaro, di colui che non ha linguaggio riconoscibile e che sta
fuori le mura. È un discorso sull’azione: la sua azione non è più uccidere il
nemico, ma confrontarsi nel rapporto con la donna. Il suo linguaggio rompe il
linguaggio normalizzato, quelle mura che hanno distrutto i gesti e le relazioni
intime. Le persone tutti i giorni portano in sé questa distruzione e questo
dramma, seppure esplicitata in piccole cose quotidiane: è il problema di una
narrazione omerica che vede l’uomo che torna a casa dalla moglie. È il dramma dell’uomo
che non sfida il rapporto con la conoscenza che si presenta in tutte le vite.
Probabilmente non bisogna attraversare l’oceano, forse basta uscire dalla porta
della propria casa, basta confrontarsi con le persone che vediamo tutti i
giorni, per provare a non essere Ulisse che ritorna a casa, ma uomini che non
uccidono il movimento interno delle donne che hanno accanto. Questo lo possono
tentare tutti. Cosa significhi per il linguaggio e per la realtà umana, io non
lo so e neanche mi pongo il problema… Però è un’esigenza che viene fuori tutti
i giorni: mi viene in mente il panettiere che esce fuori dalla bottega, che sta
lì mentre ti trovi a passare e dice una cosa bella a una ragazza, perché in
quel momento non lavora e vorrebbe fare qualche cosa di inutile e bello e non
lo può fare. E come lui ci sono tanti altri… La maggioranza delle persone
pensano così. Molto spesso ho pensato che scrivo per quelle persone, per tutte
le persone che in realtà vogliono vivere e non lo possono fare o che in ogni caso
non hanno il coraggio di provarci fino in fondo. E nei rapporti vivono invece
oppressioni di tipo sociale, ma anche culturale, psichico…
Religioso…
A. S. Fondamentalmente religioso! Cerchiamo di scoprire quanto una storia,
un’immagine, un racconto possa andare a toccare queste cose… Tutto ciò ha a che
vedere con la storia degli esseri umani: non è un passatempo e non è un modo
per rassicurare gli altri. E questo non è un romanzo rassicurante.
M. T. O forse lo è in
quanto racconta di una possibilità…
A. S. Alle volte penso che le cose che ho scritto sono cose che avrei voluto
dire a tante persone che ho conosciuto anche per un attimo e che non ho potuto
dire… Perché dire certe cose significa separarsi da una realtà contingente e
ascoltarsi, sentirsi, non temere di stare zitti. Non si dovrebbe avere paura
del silenzio pensando che sia un vuoto… Quando lo sperimentiamo nel
laboratorio, ha una potenza comunicativa enorme: nel fare silenzio con
presenza, riusciamo a tenere settanta, ottanta, cento persone per due ore. E
poi ci dicono: “io questa cosa così l’avrei sempre voluta, ma fuori non c’è!”.
M. T. Oppure dicono: “in
quest’ora che siamo stati insieme ho pensato a tutto
il mio mondo”…
Solitamente siamo
invece rinchiusi in quella che nel libro viene detta “Città delle immagini”…
A. S. A partire dalla fine dell’Ottocento, nel Novecento, esiste l’enorme
possibilità di gestire la memoria e influenzare il pensiero attraverso i
sistemi di riproduzione sonoro e visivo: cinema, radio etc. Purtroppo ci
troviamo di fronte all’uso di uno strumento potentissimo che però annichilisce,
devitalizza, perché ha un contenuto particolare – e stavolta parlo di maestri
veramente pessimi – e che ripropone una ripetizione ossessiva. Cioè la violenza
del linguaggio delle immagini e della scrittura ha dietro un pensiero e un
metodo del pensiero che nasce da rapporti violenti, annullanti. Il problema è
che bisogna trovare un altro linguaggio, che derivi dal corpo vivo dell’uomo e
della donna. Questo possono averlo tutti, senza distinzione di classi; e chi
non ce l’ha dovrebbe avere il buon senso di appartarsi e ascoltare gli altri.
«Raccontami la
storia degli uomini che per ritrovare la voce dovettero liberare le donne»…
A. S. Esatto. Quella frase ha sempre a che fare con la “Città delle
immagini”… Le vere immagini non sono quelle che vengono protette all’interno
delle mura, quelle costruite attraverso l’uccisione del movimento delle donne,
dei bambini e degli operai artisti, cioè del proletariato delle immagini,
riferendoci ad una storia a noi vicina. Ritorna come un eco lontano il grande
scontro che nella cultura e nella storia c’è stato tra le culture nomadi e
quelle stanziali. Quanto le strutture nomadi e i nomadi, cioè coloro che
avevano un rapporto con l’immagine in movimento, anche rispetto all’abitare e a
un modo di vivere, siano entrati in conflitto con coloro i quali stabilivano
un’immagine fissa, e quindi anche una struttura sociale… Inevitabilmente, nel
tentativo di recuperare quel tipo di rapporto con l’immagine si va a ciò che
c’era prima, cioè a tutta una serie di linguaggi, dalla lineare B al linguaggio
geroglifico, al linguaggio cuneiforme, in cui il rapporto immagine–suono–segno
era diverso e in cui probabilmente c’era una diversa situazione sociale di
rapporto uomo donna…
L’aspetto del
cosmopolitismo, del movimento, contrapposto allo stanziale, al conservatore che
in qualche modo dalle proprie mura non sa uscire, è anche un discorso politico?
A. S. Per quanto riguarda il linguaggio, l’accettazione del diverso, della
donna, o anche nei termini di una cultura e del rapporto con una storia, è
fondamentale. Anche perché storicamente è un fatto assodato che in particolare
la cultura araba era capace di lasciare nelle terre dove portava la sua
conquista militare un’amplissima libertà, di lasciare alle diversità degli
spazi enormi… Completamente opposto rispetto a quello che facevano i Cristiani,
che invece erano molto più violenti. Un tentativo del romanzo è quello di
trovare un punto di vista che sia il punto di vista di chi scrive: non a caso
al Laboratorio la donna… che fa segni ha fatto emergere immagini che
riguardavano lo scriba. Altra figura molto particolare, perché è l’uomo che,
mentre scrive e lascia il segno perché c’è il potente che glielo ordina, in
realtà si pone il problema degli uomini liberi.
E qui subentra la
funzione etica di chi scrive…
A. S. Certo. Lo scrittore è nella storia e deve prendere una posizione. Io
so da che parte sto e per chi scrivo. Certo c’è poi la questione di “vendersi”,
una realtà in ogni caso di chi rappresenta: se uno ha fortuna può riuscire
anche a vincerla e decidere liberamente a chi dare il proprio linguaggio. Però
in ogni caso i contenuti e il tipo di immagine verso cui noi facciamo
riferimento nel momento della rappresentazione sono una scelta… se vuoi non
cosciente, irrazionale. Inoltre, la ricerca sul linguaggio umano non è qualcosa
di oggettivo, quindi necessita di una scienza che assuma su di sé la
responsabilità di prendere un punto di vista di relazione e confronto con la
storia. Noi ci poniamo nei termini di una presa di posizione soggettiva e
storica, di una Storia che ha precedenti molto frammentati, nascosti, a volte
occultati ma che la ricerca di Massimo Fagioli e dell’Analisi collettiva
orienta, un orientamento del tempo, per cui poi chi vuole può andare a
ricercare chi, quando e come ha provato a fare e a muoversi in una certa
direzione nel rapporto con gli altri esseri umani e chi si è opposto e si
oppone oggi a tutto questo. Una ricerca tutta da costruire: noi abbiamo scelto
un ambito che è quello del linguaggio e della rappresentazione. Ma ce ne sono
altri: ognuno sceglie come complicarsi la vita!
(Nuova Agenzia
Radicale, 2-3/02/05)©
Paolo Izzo
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